Dalla betulla si effonde oscurità nel cielo e sulla terra.
Forse la sera vi è rimasta tutto il giorno nascosta
per sfuggire alla luce
aprendo gli occhi, invano, a vedere se stessa,
spaurita e percossa da un rombo sconosciuto:
la voce del fiume o il vento tra le montagne o il suo cuore.
Ma a poco a poco ciò che si ignora non fa più male;
così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare.
Il tempo che lacerava il suo cuore è ora un immobile sogno ed ha un attimo solo.[1]
“Ho visto la betulla fuori dalla finestra e ho scritto”.[2]
Questi sono gli occhi di Elena Bono, poetessa, scrittrice e drammaturga del Novecento (1921-2014). Riscoperta recentemente nel suo capolavoro Morte di Adamo, grazie all’editrice Marietti[3], Elena andrebbe davvero riscoperta come poetessa, perché così esordì nel 1948 con la raccolta di poesie I fenicotteri[4], aperta proprio dalla lirica trascritta sopra Dalla betulla si effonde, e perché gli occhi di Elena sono essenzialmente occhi poetici, cioè occhi che scendono negli abissi. Seguiamoli.
Dalla concretezza della realtà, cioè dalla betulla vista fuori dalla finestra, si effonde, è versata fuori l’oscurità che dilaga: nel cielo, cioè dentro il luogo più lontano dalla terra e dagli uomini e perciò il luogo umanamente più desiderato, patria degli dei e di Dio; e sulla terra, patria degli uomini. Tale esondazione oscura unisce insomma cielo e terra, due poli che sembrano così distanti e che sono invece così uniti nei versi di Elena. La betulla concreta è altrettanto concretamente un abisso d’acque oscure, in cui non sono in antitesi la profondità del cielo e la profondità della terra.
Mi rendo conto che le mie parole complicano, mentre Elena corre sulle acque con parole semplicissime (betulla, oscurità, cielo, terra) e profondissime.[5] L’esperienza di cui ci fa partecipi è quella concreta che visse l’8 settembre del 1943[6] ed è quella che si vive ogni giorno se si è veri uomini: le cose concrete e i volti concreti gettano fuori una sorgente di oscurità con dentro la possibilità di toccare il fondo della terra e del cielo.
Ed è a questo punto che compare la sera. La sera è una presenza vivente e veniente nella poetica boniana, che riesce a portare il cielo sulla terra. Nella presente lirica rimane tutto il giorno nascosta nella betulla per sfuggire alla luce: non è l’aperto dominio del giorno e della luce il vero momento per uscire o per immergersi nell’abisso effuso dalla realtà, cioè non è la semplice superficie che basta, serve l’inabissamento, il dominio della notte, che è la profondità del giorno.
Eccoci arrivati all’inizio dello snodo fondamentale: la sera apre gli occhi invano a vedere se stessa, spaurita e percossa da un rombo sconosciuto. La sera apre gli occhi, si sveglia nell’oscurità, per vedere se stessa, richiamata da quel rombo, da un suono di acque, dal suono dell’abisso. La voce del fiume. Il fiume è molto spesso il tempo in Elena, cioè la vita che scorre, non afferrabile, fluida, in cui si perdono anche gli eventi più significativi. Nel fiume però c’è una voce e, se c’è voce, c’è Qualcuno che chiama. Una presenza fra le acque che scorrono. O il vento tra le montagne. Le montagne lontane sono luoghi divini dove abita il vento, anemos, voce che non si sa da dove viene e dove va. Ma che arriva da così lontano. O il suo cuore. Abisso di acque.
La realtà insomma provoca a una vertiginosa immersione nel suo abisso per scoprire se stessi. Eppure aprire gli occhi e stare alla superficie della luce non serve a tal fine.
Ma a poco a poco ciò che si ignora non fa più male. Il problema è che il modo con cui la voce, il vento, il cuore si fanno incontro si ignora e fa paura. È impensato e talvolta doloroso. Fino a quando…
Così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare. Non è difficile andare a fondo, seguire la voce misteriosa. Basta essere semplici. Chiudere gli occhi. Fare il passo nell’abisso, seguirne il rombo. E solo così guardare. Essere come il povero alla porta, ostinato, direbbe Manzoni.[7] Bisogna togliersi un occhio come un dio per vedere il Tutto per cui combattere fino a morire, fino alla fine o al crepuscolo degli dei.[8] O il Tutto o il nulla dice Elena.[9] E invita alla battaglia. Cosciente che in fondo all’abisso che spaventa non c’è il nulla, ma il Tutto, una voce, che in altre poesie diventerà un volto, il volto dell’innamorato, l’Amore. E quindi il proprio vero volto. Così si vede se stessi. E questo è l’unico compito dell’uomo. Non ce n’è un altro, non c’è altra battaglia giornaliera che questa.
Allora sì il tempo che scorre, che fa dimenticare e porta via tutto, che lacerava il cuore, ora, proprio ora, come una possibilità inaudita, è un immobile sogno ed ha un attimo solo. Come un fiume come un sogno[10] sarà il titolo di un romanzo di Elena che traduce un Salmo dalla Bibbia di Lutero.[11] Dentro il fiume del tempo passa l’attimo solo, la possibilità data ora, il sogno, cioè la dimensione profonda che non fa perdere nulla, dimensione profonda del semplice sonno che invece, come il tempo, come un fiume, fa dimenticare e perdere tutto. All’uomo la scelta: stare fermo oppure immergersi nel fiume e nel sonno per trovare non il nulla e l’indifferenziato, tentazione che fu anche della giovane Elena, ma l’attimo e il sogno.
In quella sera dell’8 settembre 1943 fino alla fine della sua vita e nell’ora poetico della faccia carnale che è la poesia, Elena con il suo sguardo invita semplicemente a chiudere gli occhi e guardare.
“Era la scelta non più del buio, ma dello sguardo interiore aperto su Dio e attraverso lui sull’io, le cose, gli avvenimenti; non più fuga al nulla, ma il recupero della nostra presenza nel mondo, questo luogo di dolore, ma anche di definizioni. Incominciava quel giorno una stagione storica in cui lo strazio morale e fisico di tanti giovani mi avrebbe fatto riscoprire, o scoprire, la Passione di Cristo, il vero ed unico “Uomo d’oro”, l’Agni senza peccato; e in Cristo non più l’uguaglianza Tutto‒Nulla, ma l’uguaglianza Uomo‒Dio, e le ragioni, uniche e vere, per le quali l’uomo per decaduto che sia, non può essere asservito né manomesso. Non può essere ridotto a cosa”.[12]
Emanuele Giraldo
[1]
Elena Bono, Poesie. Opera omnia, Recco – Genova, Le Mani, 2007, p. 31.
[2]
Dalla nota inedita di Elena Bono presente nell’e-book Elena Bono, Poesie. Opera omnia, Breviario Digitale, 2016, p. 43.
[3]
La prima edizione è quella garzantiana: Elena Bono, Morte di Adamo, Milano, Garzanti, 1956.
Poi c’è quella della piccola casa editrice genovese EmmeE: Elena Bono, Morte di Adamo, Recco – Genova, EmmeE, 1988.
Infine l’operazione – purtroppo – divisoria ultimamente prodotta dall’Editrice Marietti nei due volumi: Elena Bono, La moglie del procuratore, Milano, Marietti 1820, 2015 e Elena Bono, La morte di Adamo e altri racconti, Milano, Marietti 1820, 2016.
[4]
Raccolta in seguito confluita nella prima raccolta poetica boniana Elena Bono, I galli notturni, Milano, Garzanti, 1952, raccolta attualmente inclusa nell’Opera omnia poetica per cui si vedano le note I e II.
[5]
A questo riguardo, consiglio a chi avesse già letto l’intera opera poetica di fare attenzione a queste parole, a prenderne magari in esame una e vedere come ritorna nelle varie poesie.
[6]
Riporto parte della nota inedita di Elena Bono già menzionata alla nota II.
“La scrissi l’8 settembre 1943 quando, arrivando a casa con mio padre, trovai i tedeschi ubriachi nel portone della casa di Corso Montevideo. Per giustificare il loro comportamento, dissi sottovoce “poveretti” e loro ci chiamarono “sporchi badogliani”. In casa avevamo paura che venissero a bussare alla
porta, ma il Signore li ha tenuti fuori. Quella sera stessa scrissi Dalla betulla si effonde. Ho visto la betulla fuori dalla finestra e ho scritto. Mi ritrovai così dentro la storia e capii che nella storia avrei dovuto vivere e scrivere le mie opere. Dopo verranno le Fosse Ardeatine”.
[7]
“non crediate […] ch’io mi contenti di questa visita per oggi. Voi tornerete, n’è vero?” […] “S’io tornerò?” rispose l’Innominato: “quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!” – Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2012, p. 486.
[8]
Dal tedesco Götterdämmerung che traduce ragnarökkr, cioè notte o oscurità degli dei, divino errore dall’antico nordico ragnarök, cioè ultimo destino, fine degli dei, delle canzoni dell’Edda.
Mi sto riferendo ai miti nordici di Odino che si toglie un occhio per vedere la sua fine e appunto della fine o crepuscolo degli dei.
[9]
Carlo Dignola, O il tutto o il nulla, intervista per Tracce, Rivista internazionale di Comunione e Liberazione, luglio-agosto 2013, pp. 94, 95, 96, 97.
[10]
La prima edizione del romanzo è Elena Bono, Come un fiume, come un sogno, Recco, EmmeE, 1985; poi, Recco, Le Mani, 1999.
[11]
Il titolo è tratto dal Salmo 90, 5 nella traduzione di Martin Lutero: “[…] wie einen Storm; […] wie ein Schlaf […]”.
[12]
Elena Bono, Quasi una dedica, in Id., Invito a Palazzo, Recco ‒ Genova, EmmE, 1982, pp. III, IV.
Rispondi