Recensione libro – “La stanza profonda” di Vanni Santoni

Il libro di Santoni, tra la dozzina in lista per il premio Strega 2017, racconta la storia di un ragazzo e di un gruppo di amici che si ritrovano il martedì sera (ogni martedì sera) per giocare a giochi di ruolo (Dungeons & Dragons, o derivati). L’atmosfera che si respira è inizialmente quella regalataci da Stranger Things senza la componente fantascientifica. Sono gli anni della programmazione tv a colori, dei Queen, del walkman, del ritiro delle truppe statunitensi dal Vietnam, della prima di Guerre Stellari e dei primi computer moderni. In Italia sono però anche gli anni di piombo e forse non sarà un caso se il libro di Santoni non è solo la storia spensierata di alcuni ragazzini che giocano, ma anche un manifesto della controcultura o subcultura. Lo stesso protagonista, in una immaginaria intervista alla RAI in seguito al suicidio di un ragazzo che giocava a D&D, afferma che i giochi di ruolo sono un’avanguardia, niente di meno. Ma cosa significa avanguardia? Innanzitutto è audacia e coraggio di cambiare. Avanguardia significa porsi al di fuori della cultura mainstream, e in questo senso D&D era avanguardia. Il giocatore, il nerd era visto come lo sfigato, quello che veniva “bullizzato” nelle scuole e negli spogliatoi, emancipato da una società che si fondava (ma si fonda ancora) sulla legge del più forte. Emblema di questa società è, secondo l’autore, la competizione sportiva. Essa è un gioco di carattere simulativo ma con un effetto disgiuntivo, dove ci sono vincitori e vinti, e ciò riflette la società capitalista. D’altra parte il gioco di ruolo, arriverà a dire Santoni con le parole di Silli, uno dei protagonisti, non ha vincitori ed è congiuntivo poiché mette assieme persone che inizialmente erano separate unendole in una comune esperienza, regolata da regole condivise. Quindi in fondo non è altro che un rito. Un rito per portarti fuori dal contesto infantile e passare all’età adulta o per non diventare adulti. In effetti questo è uno dei tre passaggi chiave del libro, rimarcato dalla citazione finale di un passo di F. Dostoevskij: “In ogni caso non abbandonate mai il tavolo da gioco, perché il giorno che lo farete la festa sarà finita e sarete diventati inesorabilmente vecchi”.

Ma facciamo un passo indietro per cercare di svelare il secondo punto chiave, già anticipato con il termine avanguardia. Il gioco di ruolo prelude alla cultura di internet come luogo di ridefinizione dell’identità. Non solo è precursore dei giochi GDR e MMORPG (Massive Multiplayer Online Role-Playing Game) che contano centinaia di migliaia di iscritti in crescita esponenziale, ma anche dell’intera industria del fantasy letterario e cinematografico. Per non parlare poi dei social network dove l’idea di creare un avatar con caratteristiche e statistiche personalizzate (perché come tali vengono registrate) ricalca di fatto le schede personaggio di D&D. Una rivincita in grande stile di quello che un tempo era il nerd sfigato.

C’è ancora un terzo punto da sottolineare, ed è probabilmente la chiave di lettura del libro. Il retro di copertina recita un breve estratto: “Sai, ogni volta che scendevo nella stanza era davvero come trasfigurarmi. Non era tanto il mettermi nei panni di una strega o di un assassino, no. Né l’evasione. […] Qui si creava. Si può essere certi che le cose immaginarie abbiano meno peso di quelle reali?”. Se le cose immaginarie avessero lo stesso valore di quelle reali sarebbe un errore? Perché ciò che è immaginario dovrebbe essere inferiore al reale? Il continuo tessere mondi e storie diventa una forma di resistenza. Non escapismo, ma resistenza, non fuga dal mondo, ma opposizione ad esso. Opposizione al “Nulla” che ci circonda e che avanza come ne “La Storia Infinita” di Michael Ende. Tolkien, nel suo saggio sulle fiabe pubblicato in Italia come Albero e foglia, dice che il fantasy non è semplice escapismo dalla realtà perché la gioia o il dolore provato dai personaggi del racconto e noi con loro sono veri, una simile gioia o dolore ha lo stesso sapore della realtà altrimenti il suo nome non sarebbe gioia o dolore. L’autore britannico aggiunge un’altra cosa: ogni scrittore che crei un mondo secondario, una fantasia, ogni subcreatore, probabilmente desidera in parte almeno essere un creatore effettivo, o almeno spera di attingere alla realtà. In tali storie, quando avviene l’improvviso «capovolgimento» il lieto fine (eucatastrofe), abbiamo una straziante visione della gioia, dell’aspirazione del cuore che per un istante travalica i limiti del racconto, lacera la ragnatela della vicenda e permette che un bagliore la trapassi. In un certo senso è l’immaginazione stessa che illumina la realtà, rendendola non mai banale, ma sempre meravigliosa e stupefacente.

Fabio Darici

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