«Nei chiostri, davanti ai frati che leggono, che ci fanno quei mostri ridicoli, quelle così belle deformità, e quelle bellezze deformi, quelle scimmie immonde, quei leoni feroci, quei centauri mostruosi, quegli esseri subumani, quelle tigri maculate?»[1]. Non è la guardia di Scotland Yard a parlare dell’ultima bravata di Bansky, ma Bernardo di Chiaravalle dal lontano 1125, quando i mostri già cominciavano ad impestare le pareti e i manoscritti dei conventi. Perché di fatto è sempre esistita un’arte dei margini, dei sottopassi, dei ghetti e dei muri troppo bianchi. Un’arte inclassificabile e folle, che sempre contrappone il centro alla periferia. Per questo se la cattedrale è il centro, le sue periferie saranno i doccioni, se la colonna è il centro, il capitello sarà la sua periferia, se il manoscritto è il centro, i margini miniati saranno le sue periferie. Forse così sono nate le drôleries, ancora discusse nel mondo dell’arte[2], questi personaggi Carrolliani ante litteram che costituiscono una sorta di sottobosco all’opera di Bosch. Tramandate di manoscritto in manoscritto, queste stravaganti glosse, hanno torturato la critica sin dai primi secoli: sono elementi puramente decorativi o rappresentazioni zoomorfe della spiritualità cristiana? Hanno invaso i manoscritti come fuggiti dalla Capolettera, o si sono intrufolati partendo a volo da qualche gargolla?
Ma i conigli impazziti fuggono, con le alabarde in mano, e i babbuini scappano a gambe levate, da qualsiasi gabbia eziologica, a qualsiasi interpretazione topologica: il manoscritto è il loro territorio, a morte chi vuole acciuffarli, a morte il testo inutile e borioso. Difficile a questo punto immaginare il volto del miniaturista: sorrideva burlandosi dell’Ecclesiaste o di Tacito, dipingendo in chiosa i personaggi del futuro Robin Hood della Disney? O lavorava serio, con sguardo chino al manoscritto, figurando allegorie e simboli del credo, e la lonza divoratrice e il coniglio lussurioso?
Certo questi anonimi writers del medioevo, ci parlano di un’umanità reale, di una volontà di dire, anche le cazzate, in un mondo e in un epoca che sempre immaginiamo tesi all’infallibilità teologica, governati da principi inflessibili e vescovi autoritari. Ecco, le drôleries ci riportano forse in una realtà complicata, feroce, ma allegra, in cui la burla ha sempre un suo fine: si racconta di come Bonifacio VIII venisse una notte vestito da angelo, con una tromba, in pompa magna nella stanza di Papa Celestino insinuando di essere un emissario celeste e intimandolo ad abbandonare il soglio pontificio[3], si racconta di come Frate Cipolla improvvisasse uno scambio improbabile di reliquie fasulle[4], o di come Ser Ciappelletto riuscisse a infinocchiare un confessore che lo prese per santo.
Un’epoca in cui anche agli animali era riservato il giudizio penale, e le api condannate a morte nell’864 per aver ucciso un uomo, e la mucca impiccata, e il boia pagato, il 9 gennaio del 1386, per giustiziare pubblicamente una scrofa accusata d’infanticidio. Perché alla fine non importava che tu fossi un monaco o un coniglio assassino, un babbuino o un cavaliere, un boia o una scrofa assassina: ogni mattina, nel medioevo, ti dovevi alzare e correre, perché sapevi che sennò Bonifacio VIII ti avrebbe scassato i maroni tutte le notti, fino ad abdicare.
Giovanni Scarpa
[1]
Apologia ad guillelmum, [illa ridicula monstruositas].
[2]
Uno degli ultimi lavori a riguardo è la tesi di Sara Sebenico, I Mostri dell’occidente medievale, del 2005.
[3]
Vol. II Storia dei Papi – C.Castiglioni prefetto all’Ambrosiana – 1957 seconda Ed. riveduta e aggiornata fino al Papa regnante Pio XII.
[4]
Una tra le celebri novelle boccaccesche.
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