Per tutto il medioevo maturo l’acqua ha rappresentato l’elemento di collegamento e di raccordo, il più adatto a accorciare le distanze. Con il progressivo logorarsi di un potere pubblico centrale, la più duratura e mastodontica tra le eredità della romanità classica, il suo sistema viario, lasciò il posto al transito per via d’acqua. I fiumi erano alimentati dalle loro sorgenti; all’uomo restava lo sforzo di risalirli, canalizzarli, far crescere importanti centri di commercio attorno alle stazioni di transito fluviali, contribuendo alla pervasività di dazi e diritti di approdo che alimentavano lo sviluppo autonomo e il potere di quelle città. Difficilmente si può comprendere la concretezza e la vitalità dei rapporti tra persone e società tra medioevo ed età moderna senza considerare il legame con l’acqua, prima coi fiumi, poi col mare, solcato dall’intraprendenza sognatrice degli europei ansiosi di avvicinarne le sponde. Le crociate figurano come il momento di maggior consapevolezza dell’urgenza di tener vicine due sponde, mentre l’una e l’altra apparivano distanziarsi più nello spirito che nella geografia.
In questa storia, Venezia deve la sua fortuna al rapporto della società medievale con le acque, in cui si innesta quello suo proprio. La differenza tra un insediamento di barcaioli attivi nella pesca e nell’estrazione del sale e la repubblica commerciale più importante del Mediterraneo orientale si è giocata sì nel rapporto di vicinanza culturale e distacco politico con Bisanzio, ma, soprattutto, proprio dentro la dinamica obbligata dell’acqua come strada da percorrere. E questo prima dentro la città, poi fuori. Ne abbiamo abbastanza per trattenere questo dato: l’acqua avvicina, a Venezia soprattutto. All’interno di questa narrazione c’è un’ambiguità: una sponda e l’altra sono lontane proprio perché l’acqua le divide, ma è solo attraverso l’acqua che esse diventano vicine. L’acqua è l’elemento di raccordo per un’unità storica che da sola non ci sarebbe se non intervenisse un progetto, una creatività del pensiero che quell’unità può leggerla. Venezia e il suo estuario sono, pertanto, tenuti insieme da un magnifico progetto di unità fisica e spirituale che ha letto nell’acqua questo codice della prossimità. Essa poi lo ha proiettato fuori di se stessa, nel dominio dell’elemento marino, dentro un linguaggio dell’unità di Occidente e Oriente che è filtrato attraverso quel dominio.
All’inizio del Quattrocento i Veneziani si pongono nelle condizioni di estendere il dominio detenuto sul loro golfo adriatico anche sulla terraferma. Minacciati dall’aggressività della popolosa e autoritaria Milano, gli stati signorili cuscinetto del Veneto rischiavano di passare di mano. Sarebbero state così in pericolo le vie terrestri per il transito oltralpe indispensabili al deflusso verso nord delle merci importate in laguna, ma soprattutto all’arrivo in città dell’argento, dritto dalle miniere tedesche e finalizzato al conio nella zecca marciana. La fulminea conquista della terraferma, dovuta anche all’abilità veneziana di togliere l’acqua ai nemici, come accadde ad esempio alla Padova carrarese, è il maggior momento di svolta della storia di quella che dal 1462 chiamerà ufficialmente se stessa Serenissima Repubblica. Saremmo tentati di indugiare molto a lungo in questo racconto eccezionale, con tutte i tratti che rendono eccezionali le vicende di questa città alla fine del medioevo, ma il dato dell’imposizione della Dominante in terraferma ci è utile solo per ricordare il momento in cui la conquista sfuma: il 14 maggio 1509 ad Agnadello, a metà strada tra Bergamo e Cremona. Numerosi profughi giungono in laguna, e tra questi, i più numerosi e preoccupati sono gli ebrei, timorosi di essere le prime vittime di una prossima resa dei conti.
A Venezia essi entravano fiduciosi di essere trattati se non con rispetto, almeno con tolleranza, data la tradizione di convivenza con le comunità ebraiche già presenti stabilmente in città da almeno due secoli. Si dice che essi abbiano preso dimora presso le isole che formano la Giudecca appunto. Ma erano comunque liberi di vivere sparsi in città e di sedere ai banchi esercitando il mestiere poco nobile del prestito a interesse. Infatti, non vi era alcun mercato sommerso del denaro, tutto si svolgeva alla luce del sole attraverso condotte pubbliche. Non è vero neppure che questa fosse la loro unica occupazione, ma non perdiamoci. I profughi di terraferma erano in buona compagnia nel loro bisogno di accoglienza: la reconquista del regno di Granada da parte dei re cattolici ha posto per la prima volta in Europa la questione dell’omogeneità sociale e culturale; ma gli ebrei iberici, sefarditi, come i mori, dettero occasione anche per il primo discorso europeo sulla razza, la limpieza de sangre appunto. Venezia si riempì progressivamente di ebrei, di cui non faremo certo la storia dei sospetti e dei rapporti conflittuali che li legavano al contesto di appartenenza. Venezia trovò per loro una soluzione, un compromesso: bisognava frenare la rabbia montante verso questi ospiti indesiderati, ma senza sbarazzarsene, preziosi com’erano nelle loro cospicue prestazioni economiche. Bisognava fare in modo che essi pagassero le condotte temporanee che ne consentivano la presenza e l’esercizio delle attività commerciali, attraverso una quota comunitaria erogata alla repubblica una tantum. Essi avrebbero potuto diventare così il bancomat della Serenissima, potendo, al contempo, vivere in sicurezza. Ma dove?
Il Senato veneziano, il 29 marzo 1516 decreta che gli ebrei presenti in città debbano trasferirsi in un’unica area della città, individuata presso la zona di una fonderia ormai dismessa, che era a suo tempo subentrata a una più antica. Quel luogo, deputato a tenere protette le gettate incandescenti di metallo fuso, il gheto, diventa per antonomasia il luogo della separazione e della concentrazione, nel momento in cui accoglie gli ebrei attorno al campo di gheto novo.
Completamente circondato dai canali, il ghetto di Venezia, al centro del sestriere di Cannaregio, era collegato attraverso due porte che si chiudevano durante la notte. L’unica maniera che la politica trova per rendere ammissibile la convivenza con la comunità ebraica. Agli occhi di una cultura fortemente moralizzata dai diritti dell’individuo come la nostra, la spregiudicata scelta di Venezia di rinchiudere parte della propria comunità in un luogo a parte, monitorato e distante dal cuore pulsante della città, cioè da Rialto, appare cinica e gretta. A suo tempo però essa si configurò come un compromesso non soltanto accettabile, ma persino raffinato, per normalizzare una presenza che le circostanze rendevano preoccupante e da cui era comunque possibile trarre giovamento. Se qualcosa manca a Venezia nella sua storia di successi e scossoni è certamente l’ipocrisia politica. Tuttavia essa si consolidò come una realtà pienamente libera, economicamente prospera, vivace in quanto capace di accordare a tutte le realtà sociali, cittadine e straniere, un proprio posto nella città. Per gli ebrei fu trovata questa soluzione, certamente dolorosa, ma che dire delle espulsioni spagnole, delle violenze e dei soprusi a cui erano esposti altrove? Erano un bancomat, e come tale fu giustificato il loro muoversi in città (di giorno); ciò suona offensivo e irriconoscente, ma gli ebrei stettero al patto, anche quando questo divenne di volta in volta più esoso e più costoso anche dal punto di vista dei rapporti interni alla comunità.
Gli ebrei, divisi tra tante tradizioni, nazionalità e correnti, si costruirono un loro spazio sociale, lo arricchirono culturalmente, diedero un volto nuovo anche all’edilizia della città, dovendo usare lo spazio con parsimonia e proiettare le costruzioni più in alto. E ai piani superiori stavano le sinagoghe, tra acqua e cielo. Dio aveva posto «un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque» (Gen.; 1,6): separando Dio aveva creato il cielo e il mare. Nella loro separazione forzata, gli ebrei si sono adattati alla porzione di cielo che gli era messa a disposizione in quello spazio ristretto. L’acqua, per loro, si era rivelata in quel momento nel suo aspetto di allontanamento, ma neppure così la città era venuta meno al suo progetto di unità storica. Quei canali attorno al Ghetto servivano per distanziare, per isolare, non c’è dubbio; ma anche per tenere vicino, per non rifiutare completamente quell’elemento estraneo che, se la politica poteva considerare con opportunistico interesse, la società aveva ormai integrato, con difficoltà, come aveva fatto molte altre volte, fin dall’inizio della sua storia. Ben presto il ghetto di Venezia diventerà una realtà porosa, attraverso cui si consumerà uno scambio culturale, spesso teso, ma inevitabile.
Nulla a che vedere con la volontà truculenta, spietata, razionalmente espulsiva, che sta dietro i ghetti novecenteschi. Nessuna volontà di annichilimento. Nessuna lettura che riduca la drammaticità dell’episodio del 1516, però. A Venezia andò in scena un dramma, a cui la città avrebbe potuto sottrarsi con un decreto di espulsione. Ma non lo fece. L’età moderna è l’età in cui affiora, come realtà storica operante, la coscienza. Fu forse anche un problema di coscienza. Nelle nostre società spezzettate, disarticolate, non abbiamo smesso di essere tante isole separate. Non abbiamo smesso di porci il problema di concepire l’acqua che le separa come l’elemento che le allontana o quello che le avvicina. Uno sguardo sulla mappa di Venezia prova visivamente gli effetti di quella scelta di vivere insieme che fu l’inizio della sua storia. Preferì usare l’acqua per trovare un’unità che altrimenti non avrebbe avuto, con creatività e fortuna. Il ghetto voluto per dividere finì per tenere dentro coloro che si volevano distanziare. Trasformare le acque in canali è un’occasione aperta a tutte le società, un rischio e una prospettiva di civiltà.
Damiano Eletto
P.s. Nel buttar giù queste righe, da piccolo storico, sono venuto meno alla più importante delle regole del mestiere: le famigerate note a pie’ di pagina. Non è stato un maldestro tentativo per condire di fesserie quello che doveva essere un rigoroso racconto di fatti storici, in primo luogo perché non è a quel rigore che avrei voluto sottostare. Parlare di storia per suggestioni può rischiare di essere talvolta ridicolo e spero che non sia stato questo il caso. In altre occasioni invece può essere l’occasione per innescare un dialogo costruttivo con i fatti, senza il peso della scienza dei fatti che trattiene a terra, spesso un po’ aridamente, e senza la libertà di volare tra le nuvole dell’invenzione.
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