È difficile intraprendere una strategia discorsiva tale per cui si riesca a far comprendere a chi legge, la grandiosità di un qualcosa che è e rimane effettivamente e indiscutibilmente piccolo. Voglio dire che a volte la necessità di parlare o scrivere, dovrebbe esigere l’argomentarsi di una tematica che controbilanci la fatica muscolare dello pterigoideo così come il complicato andirivieni delle falangi sulla tastiera. Per non parlare dello sforzo bulbo-oculare a cui il susseguirsi di parole inutili come queste costringono il nervo ottico del lettore. Ecco, dopo uno pseudo incipit come questo, persi i pochi lettori e inseguita inutilmente l’idea di giustificare ciò che sto per scrivere, mi ritrovo a parlarvi di lumache[1]. Non solo perché, come ben sapranno i miei compagni di università, il mio sogno è sempre stato (e lo è ancora) quello di aprire un giornale culturale intitolato La Lumaca, ma perché un artista londinese le ha rese protagoniste inconsapevoli (o almeno credo) delle sue opere. Anzi, le ha rese proprio opere ambulanti.
Inner City Snail è un progetto iniziato da Slinkachu (nome d’arte un po’ cacofonico, ma tant’è) nel 2010, cioè molto prima che un regista pazzoide come David Soren pensasse di realizzare un film (bruttino) come Turbo. Questo Slinkachu cos’ha fatto in pratica: ha preso delle lumache, gli ha “pimpato” il guscio e le ha salutate cordialmente lasciandole andare (molto lentamente a dire la verità) per la loro strada.
Il tutto potrebbe risultare lapalissianamente ignorante, e un po’ lo è, ma ci consente di far luce su una dinamica artistica che sempre più sembra oscurata da un panorama mondiale molto brillante e poco luminoso. Ovvero quella prospettiva secondo la quale l’Arte non si esaurisce nella sua fruibilità. Secondo la quale la sua essenza non consiste nella visualizzabilità. Questa che sembrerebbe un’idiozia (e che forse lo è), ci porta a considerare il gesto artistico come una necessità propria di chi crea, un movimento disposto all’apertura, ma auto comprensivo e compiuto nell’atto della sua stessa realizzazione. Un’arte cioè simile ai fiori non colti, alle rose dei prati, alle lumache di Slinkachu, appunto. Perché, a parte le proteste nazi-animaliste di chi potrebbe vedere in questo bizzarro progetto l’opera di un nefando imbrattatore di case altrui, ciò che questo trentottenne insegue, è in primo luogo la possibilità che queste sue opere (lente) incontrino liberamente un pubblico reale in una sorta di mirco-epiphany cittadina. È arte libera, in movimento, piccola e disponibile. Un’arte la cui evidente fragilità, diventa allora la sua più grande forza, poiché esponendosi al rischio più elevato, cioè quello del suo annientamento (supponiamo per puro sadismo immaginale, l’uccisione di una di queste opere da parte di una grossa autovettura durante un incauto attraversamento stradale), essa acquisisce l’imperturbabilità dei pellegrini e l’inconfondibile ardimento (inconsapevole anche questo) degli eroi.
Tutto ciò, in aggiunta al fatto che oltre ad avere avuto una idea oggettivamente ardita e geniale, il nostro Slinkachu testimonia una singolare bravura nel “pimpare” dei gusci non propriamente adatti alla scattante policromia di strada, e senza considerare il fatto che in questo modo egli viene a consolidare la funzione evolutiva dell’Artista che ha consegnato alle promettenti chiocciole “pimpate” un incredibile potenziale di rimorchio (inteso in senso amoroso, non automobilistico).
Fine.
Giovanni Scarpa
[1]
Si, lo so che dovrei parlare tecnicamente di chiocciole, ma la chiocciola, oltre a testimoniare l’indescrivibile ingerenza del web nel mondo animale, ha sempre avuto nella mia conformazione linguistica un connotato lezioso, fanciullesco, da Heidi per capirci.
Rispondi