Black Panther

 

Nero profondo di stelle appare il cielo. E una voce di bambino che chiede di raccontare: «Baba». È già abbracciato nella prima scena il dramma attorno cui ruota il film Black Panther: la profondità nera del cuore di un uomo in cui vive la domanda di un bambino e la risposta di suo padre. È T’Challa o N’Jadaka il ragazzo che interroga? Dalle stelle cade il meteorite di vibranio nel cuore della terra, nel cuore dell’Africa, e intorno girano le tribù, la Dea Pantera, la Heart-Shaped Herb, il primo Black Panther, i secoli di avanzamento tecnologico nel nascondimento, mentre il resto del mondo si distrugge con le guerre: Wakanda, odorosa pantera nel cuore del mondo. Intorno girano fino a un canestro da basket ad Oakland, attorno alcuni ragazzini neri. Uno di essi è il venturo Killmonger, quello che rimane per primo con gli occhi al cielo notturno coperto di nubi e solcato dalle fosforescenze di una nave volante. Nel palazzo da cui parte la navicella, proprio davanti al piccolo stupito, si è già piantata la ferita che dai padri passa ai figli. «Erat autem nox» (Gv 13, 30). Ed è notte del cuore illuminata da lampi blu di vibranio, mentre un padre è morto lasciando un anello e il figlio precipita nella notte a recuperare Nakia. Notte degli antenati: «c’è del silenzio dentro terra», diceva il Procuratore Pilato in Morte di Adamo (capolavoro di Elena Bono), pochi giorni prima di suicidarsi. Nel ventre della montagna, il viola dell’Erba a forma di cuore è versata in bocca a T’Challa da Zuri dalla veste viola. Bisogna essere sepolti per incontrare l’albero di pantere, l’albero degli antenati, vestiti di candido bianco: lì scenderà il padre, ancora una volta, come all’inizio, a raccontare… Notte venata del viola della Pantera e dell’armatura nei denti d’argento: uno straccio rosso che cade furioso nel casinò sotterraneo nella Corea del Sud, Okoye pelata dalla lucida lancia. T’Challa è Re, ma fallisce la missione. N’Jadaka, nemesi di Black Panther, non ha smesso di ferirsi, dalla prima ferita: la sua nera pelle è l’interno flagellato del suo cuore. Dentro terra per lui c’è ancora quel bambino, ma nessun albero, solo la stanza di Oakland, un libro, l’anello e il padre, la sua ferita: non c’è lacrima e se c’è, non c’è casa per il tramonto. Fuori della terra i fiori dei Re e della Pantera nel ventre della terra.

 

Killmonger - Bruci tutto

 

Che brucino, i fiori, i re e le pantere, che bruci la pelle nera infuocata. Ma gela la notte d’ossa appese di M’Kabu – molto di più gela T’Challa sotto la neve: tanti sono gli antenati, scendono colorati dagli alberi con le loro pantere; ma la stessa ferita, una sola per te, quel padre che comincia a raccontare… Non ti rimane che scendere nella sacra montagna, profonda nera, di stelle blu, e combattere, tu, che vuoi stare nell’ombra, Pantera Nera contro la Pantera d’Oro, incancellabile verità infuocata.

 

Nella sacra montagna

 

Combattere fino a slogarsi il punto più intimo del corpo o fino a piantarsi un gladio nel cuore, dove è così buio e un ragazzino continua a ripetere: «Baba». Solo così potrai riemergere dalla montagna sacra, portando in braccio quel bambino ferito e proprio davanti mostrargli, non il palazzo, ma la casa del padre, la casa d’oro del tramonto.

Un occhio poetico, semplicemente chiuso per guardare (cfr. Elena Bono, Dalla betulla si effonde, sezione Fenicotteri, raccolta I galli notturni). Un occhio su un film MARVEL dai costumi, personaggi, scenografia, musiche e azioni ben riusciti, nel solco del dramma cardiaco buio e iridescente del rapporto incrociato tra due padri e due figli, o, in sintesi, tra un padre e un figlio, che potrebbe però rimanere – come purtroppo anche rimane – su un piano superficialmente e orizzontalmente – e non profondamente e verticalmente – politico, sociale e umanitario. O, peggio, su un piano di sterile intrattenimento. Lasciamo allora che la poesia ci apra e ci faccia scendere nelle soglie del «dentro», il buio che lo stesso titolo Black Panther ci fa paurosamente intuire.

 

«Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo

de l’antico avversaro a sé vi tira;

e però poco val freno o richiamo.

Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,

mostrandovi le sue bellezze etterne,

e l’occhio vostro pur a terra mira;

onde vi batte chi tutto discerne».

Dante, Pugatorio XIV, 145-151

 

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Emanuele Giraldo

4 risposte a "Black Panther"

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    1. Perdonami, forse come avrai notato, diversi autori concorrono alla realizzazione degli articoli in questo blog e io che pubblico non ho scritto quest’ultimo. Perciò non appena lo leggerà anche l’autore ti risponderò con più cura (d’altra parte io non neppure visto il film).

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  1. Sono lo scrivano dell’articolo poetico.
    Grazie per avermi fatto scoprire questa canzone.
    Il cielo non mi basta. Dante scrive: Chiamavi ‘l cielo. Certo il cielo fa alzare la testa all’uomo dal loto in cui è immerso. E Dante lo scrive alla fine del canto delle anime purganti il peccato dell’invidia, facendo alzare gli occhi del lettore e mostrando altresì come rimangano puntati ahimè sulla terra, per cui Colui che tutto vede punisce.
    Perché il cielo non basta. Il cielo è un richiamo alle sue bellezze eterne. Non basta prendere un pezzo dell’altro, un poco, un istante di complicità, un deserto di felicità, perché passa via come polvere e vento. Perché il cielo non mi basta.
    Eppure il cielo, ripeto, è richiamo a una profondità che è la profondità della terra e del cuore. Richiama quel “dentro” profondo e notturno con cui ciascuno deve fare i conti. Elena Bono nella bellissima poesia intitolata Le buie valli del sonno scrive: […] / Eppure altra speranza / non abbiamo / che scoprire / quel che voi nascondete / o nere valli / […]. L’unica speranza è immergersi fino in fondo in queste profondità misteriose. E la poesia ha questo preciso compito. Sta alle soglie delle nere valli.
    Il film Black Panther può davvero essere l’immersione nella nera notte stellata che portiamo “dentro” senza difese.

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