CAVE SPOILEREM: Metà dell’articolo – causa snapper – è finita in cenere; mentre l’altra metà – non preoccupatevi – sarà puro spoiler su Endgame
Penso sia chiaro il monito: chi ancora non ha visto Endgame, è meglio non legga quanto segue. Salvo semplice disinteresse marvelliano o incorreggibile amore per De Sade. Mi rammarico soltanto di aver usato per ben tre volte «spoiler» (quattro), dispiacere estetico-linguistico – ovviamente – e non fobico, come quello che ha attanagliato i miei amici semi-nerd nei lunghi giorni antecedenti alla visione del film – giorni pieni di terribili nemici: facebook, meme, ecc. pronti ad anticipare il gioco finale.
Fine dei giochi dunque: un po’ lunga, carica di tante cose che devono far quadrare il cerchio, ma non tutte così importanti e così riuscite. Finché arriva la scena peggiore delle tre ore: il finale. Lo sguardo del vecchio Steve Rogers ci riproietta nel suo segreto, tra le foglie dell’America degli Anni Quaranta in note forse jazz fin dentro alla stanza del bacio tra lui e Peggy Carter. Capitan culo-più-bello-d’America con la fede al dito lascia lo scudo di vibranio all’anima nera degli U.S.A. Così si perde uno dei personaggi più poetici dell’universo cinematografico Marvel: con un bacio. Meglio, si perde la sua poesia. La scena finale è infatti il contraltare di un’altra scena, quella più bella e poetica del film: Capitan America come un’ombra dietro il vetro guarda la sua amata Peggy. Questa è stata la vera forza poetica del personaggio finora! La rinuncia finale e il tornare indietro per vivere come Stark, evacua invece ogni possibile poesia. Perché Capitan America non è Stark e perché… Perché mi deprimono tali rese dei conti. In modo simile mi ha depresso a suo tempo il bacio tra Aragorn e Arwen a conclusione della terza pellicola tolkeniana di Jackson – qui, lo concedo, il matrimonio è d’obbligo e già profetizzato, insito nelle persone del ramingo re e dell’elfa principessa, eppure ben tre film ci hanno convinti della forza del loro legame a distanza e quel bacio, sinceramente, stona con l’incrocio di sguardi lontani e di nuovo vicini. Il mio non è un problema di baci: lo diventa a seconda del tipo che ho davanti. E che tipo è Capitan America? È Steve Rogers con uno scudo stellato (la sua missione) che ama una donna irraggiungibile – verginità imposta e dolorosa. In the mood for love rimane insuperato al riguardo. Certo, non voglio paragonare il cinema di Wong Kar-wai con Endgame, ma non posso non farlo sinceramente. Ebbene, un personaggio che perda il dramma che lo fa essere quello che è, è un personaggio svuotato, prosastico. Perde la profondità di sé. Che è quasi una carezza data senza toccare.
Purtroppo in Endgame non si fa altro che parlare di dover essere e essere quello che si è davvero – contrapponendo il sé alla propria chiamata, alle volte molto oggettiva. Come Thor che parimenti rinuncia al suo ruolo di guida e lascia il comando del suo popolo a – coppia perfetta – una donna nera. W le valchirie… in ogni caso Thor versione forever after o gatto con gli stivali obeso è soltanto la divertente versione di un personaggio perso definitivamente già nell’obbrobrio di Thor Ragnarok.
La mania dell’essere e dover essere – che magari c’entrasse qualcosa col cammello di Nietzsche – è cominciata però dai film precedenti e esplosa nell’emancipazione di Capitan Marvel, che non ha un ruolo così decisivo nell’ultimo Avengers, se non il taglio di capelli – concordo col procione parlante – e le azioni d’inizio e del combattimento con Thanos: tutti i personaggi femminili in fila ad aiutare il piccolo Parker… Se sapessero che il mondo l’ha cambiato il sì di una ragazza di quindici-diciassette anni…
Riuscita mi sembra invece l’atmosfera iniziale, di solitudine e silenzio, e la parabola di personaggi quali la Vedova Nera e Tony Stark. Loro davvero compiono il loro percorso in sacrificio, fino in fondo.
Infine – senza contare scontatezze di trama e leggerezze ulteriori – la nota più dolente di Endgame è lo sguardo dato alla morte. Fluttuante, come la prova che Tony Stark aveva un cuore. L’impatto di Infinity War era stato molto interessante: come l’impatto che la morte ha su ciascuno di noi. Ma le risposte della fine dei giochi? Sono un gioco con la fine. E non un dito inserito nella piaga.
Interiorità vaga e vaga morte.
E si ritorna al bacio tra Steve e Peggy come entrando in un bar di luci, jazz… e la fregatura – in questi frangenti – si è già consumata all’entrata.
Emanuele Giraldo
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