Bounty Law e «fucking hippies». La serie TV western all’americana anni ‘50 in bianco e nero – o in Jack Cahill e controfigura – e i saprofagi autostoppisti che seducono – come la pervertita che porta in grembo cetrioli marci. Acquavite e limetta, insomma. Un ottimo Margarita. O – data la shakerata di tequila e lime – un gustoso spaghetti western. Di certo Tarantino si è molto divertito a raccontare per immagini un’altra delle sue storie; stavolta più delle altre volte; e questo «divertĕre», alla fine dell’ultimo film, può lasciare in bocca un senso di parziale insoddisfazione. Forse perché, rispetto all’antecedente recenziore The Hateful Eight, il regista ha ridotto all’essenziale e portato agli estremi le sue tecniche narrative.
Narrare per immagini una storia è quello che fa il cinema, al modo di altre arti, ma la forma primordiale di cinema, e non di altre arti, è la scena alla Playboy Mansion in cui Steve McQueen chiede ad una donna se vuole ascoltare una storia: racconta allora una brevissima «tale» indicando – a sorte di soggetto diegetico – Sharon Tate, Roman Polanski e Jay Sebring che ballano un po’ distanti, al di là della piscina; il «dito» e soprattutto la voce dell’attore statunitense che passa da uno all’altro dei tre personaggi sceglie le immagini che vengono mostrate allo spettatore, le stesse su cui si sarà focalizzata la donna; chiuso il racconto, si ritorna al magro licenziamento – e alla faccia solitaria – di Steve McQueen. Il cinema e il regista in particolare non fanno altro che questo.
Se personalmente avevo trovato ambigua la ventilata ispirazione della pellicola a un controverso fatto di cronaca nera, chi guarda il film capisce che qualcosa del fosco delitto ha sì ispirato Tarantino, ma – a tutta prima – oltre e attorno al mero fatto in sé. Trovarsi nel 1969 a Hollywood vuol dire infatti vivere tra la crisi del cinema e la New Hollywood: il produttore Marvin Schwarzs – storpiatura probabile dello Schwartz di 100 Rifles, nei cui panni si veste Al Pacino, attore esordiente proprio in quegli anni –, desideroso di cattivi che vincano sui buoni, ovvero di antieroi; lo stupore di Sharon per le prime di film porno; Bruce Lee in flashback a sfondamento dell’auto di Randy e – cosa più temibile – di sua moglie; la figura fugace e attrattiva dell’europeo Roman Polanski; l’irriso western all’italiana – Uccidimi subito Ringo, disse il Gringo –; ecc. Questione filtrata dallo strainer di indubbi sorrisi. A ben guardare Tarantino intreccia diverse storie e a diversi livelli: si passa da spezzoni di film, veri o fittizi, girati entro la fine degli Anni Sessanta, ma anche prima; a prove, retroscena e post-scena; ad attori realmente vissuti o inventati e perfino stuntmen; e così via fino agli spettri seduttori e ambigui degli hippies. Una manna per Tarantino che s’adima in ogni storia-livello e digrada da un livello all’altro stando sempre in bilico tra perfetta immedesimazione e improvviso straniamento. Tra Trudi Fraser, «actor» di ferro e non «actress» di otto anni, e Rick Dalton sgatarrante in lacrime un commosso «pumpkin». Tra Dalton medesimo che incarna la crisi degli avanzati anni Sessanta ad Hollywood e la sua controfigura Cliff Booth. Ma queste storie e livelli sono anche intrecciati come la vita di questi due amici. Lo stesso controverso fatto ispiratore del film di Tarantino sembra al termine della vicenda non c’entrare nulla con l’esistita – e invero assassinata – Tate incinta e c’entrare tutto con i mai esistiti – e, in conclusione della finzione, viventi – Dalton e Booth. Eppure: «What’s the story?», chiede Trudi a Rick. Non «the whole», bensì «the idea». L’idea della storia è quella accennata dal dito-voce dell’appartato McQueen che accenna a quella figura danzante e «naïf» – bambina fuori e dentro la sala che proietta The Wrecking Crew –, così lontana, di Sharon. Al suo incanto.
Tarantino non vuole toccare codesto personaggio: lo lascia lucidamente intangibile quale un sogno. E solo ora, mentre scrivo, mi sorprende tanta delicatezza in tale scelta, quasi fosse un aroma. Se ci si pensa, i veri protagonisti d’azione paiono e sono l’insicuro Rick Dalton e il duro Cliff Booth, che dopo due ore di pellicola accolgono il sinistro quartetto hippy – meno uno – con il giustizialismo tipico di Tarantino, ridotto però agli ultimi 10 minuti del film. Le larvali apparizioni degli altri fricchettoni hanno intanto disseminato a pizzichi l’intero itinerario filmico, costellato dai «fucking hippies» di Dalton e dagli sguardi e azioni di Booth. Sguardi e azioni che seguono l’allusa e sintetica Pussycat: un nome, un programma. La gatta scodinzolante tenta tre volte dal bordo strada; lui sorride sempre e ferma l’auto alla terza; il passaggio è una tentatrice scalza – una Laura di Interstate 60 meno perfezionista e comunque scornata dal disarmato angelo «with Even Filthier Soul». Arrivando allo Spahn Ranch, il serafico «moccasin boot» sancisce la sfida toccando terra; come l’alter ego «cowboy boot» di Dalton la sancisce nel set di Lancer. Lo stivale di Booth fa certo luce sulla crisi hollywoodiana dove tra le rovine del western abitano «freaks» e Tex è un hippy a cavallo; ma illumina parimenti qualcosa di gran lunga peggiore. Allo Spahn Ranch, tutti si amano, qualcuno si stacca e fa da guida equestre nella natura selvaggia, molti altri nascosti osservano. Particolarmente dalla baracca di Charlie. E quando l’angelo vola verso la casa del vecchio – ormai ex – amico, beh, agli amatori «peace and love» spuntano le corna e la coda, e all’apostrofo rosa si sostituisce la luce rossa della schiavitù almeno sessuale. Rosso sangue del topo in trappola a cui risponde per contrappasso il grugno cazzottato da Cliff per la gomma pugnalata. È la prima volta che compare il sangue nel film di Tarantino – tornerà alla resa dei conti, col noto giustizialismo violento e… grandi risate. Lo strano angelo custode in avaria per la sigaretta fricchettona, il cane Brandy – razza ambrata del Grigio salesiano – che sa quando chi e dove mordere, il barattolo di sbobba canina in muso a Sadie, Francesca l’italiana in arti marziali e Rick in piscina che usa il lanciafiamme antinazista sul diavolo urlante e lo getta nella Geenna: alla faccia di Pussycat che affermava che gli attori sono falsi e gli stuntmen no. Sarebbe meglio dire che la controfigura è «pretty similar to the real thing». E i due amici Dalton e Booth sono contro figure amiche di un’altra storia. Quella sempre indicata e che detta i tempi, i luoghi, la struttura del film; che a un certo determinato punto si palesa tacita ed essenziale nel suo dramma: il giovane Charles Manson – hapax – che guarda Sharon, l’unico momentaneo incontro tra la distante Tate e il suo diabolico mandante. Sotto il presidio e lo sguardo di Cliff dall’alto dell’antenna, il San Michele che Tarantino ha posto accanto alla triste storia. Dalton e Booth abitano infatti accanto alla casa di Polanski: per questo Rick si risolleva dalla sua crisi di pianto per la carriera in bilico; per questo il trio infernale decide all’ultimo di cambiare casa, allontanato e attratto dai «fucking hippies» di Dalton con margarita e riconosciuto nei suoi componenti da Booth in canna. Questi due tipi, che alla partenza dell’ambulanza si chiamano amici, sono accanto, dirimpetto a Sharon, alla distanza di McQueen. Alla distanza di una «story» e di una favola. Così Tarantino si è divertito, ha portato lo spettatore altrove, in un’altra sfera. Al cuore della vicenda. E se Rick rimane solo dopo la lotta vittoriosa sul nemico al di qua dei cancelli e al di là dei cancelli appare invitante la figura profilata di Jay Sebring e dal citofono solitaria la voce si effonde di Sharon Tate, allora l’altrove della «Twin House» sarà davvero – pane al pane, vino al vino – Cielo Drive nel Benedict Canyon. Aperti i cancelli, Rick incontrerà finalmente Sharon incinta e i suoi amici. La camera riprende distaccata e innalzata l’evento. Compare infine la scritta: Once upon a time… in Hollywood.
Ci voleva una favola per raccontare una storia tanto triste e riscattarla con l’«happy ending», per accostare un altrove che non coincide con una fuga dalla realtà, dai fatti come accaddero realmente, anzi, è qualcosa di «pretty similar to the real thing», Dalton e Booth, finché il favoloso Rick incontra la voce di Sharon oltre la cancellata, nella sua casa, fino a vedere quei fatti medesimi dall’ottica giusta – quella distaccata e innalzata dell’ultima scena. Al di là dei cancelli. Cielo Drive, quale il Cielo di Giotto nella Cappella degli Scrovegni: azzurrite e stelle ad otto punte; azzurro, anche quando è notte; anche quando l’innocente è ucciso massacrato, domina la speranza e desidera l’ottavo giorno. Un lembo alzato da cui vedremo piovere Santi, come scriveva Elena Bono: «Una pioggia di Santi. E allora, per salutare la loro ascesa al cielo, suoneremo davvero le nostre campane».
Emanuele Giraldo
Anch’io ho dedicato un post a questo film: https://wwayne.wordpress.com/2019/09/20/quentin-e-tornato/. Che ne pensi?
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