Do ut des

“Cosa è mai la fede se viene imposta con la forza […] Tommaso non ha creduto perché ha visto il Cristo risorto, ma perché ancora prima desiderava di credere”

I fratelli Karamàzov, Fëdor Dostoevskij 

 

Cosa facciamo quando crediamo? Credere significa ritenere vera una cosa, cioè essere persuasi che la tal cosa sia reale. Ma in realtà quel è processo che il credente percorre, come fa a credere? Sia chiaro, noi qui stiamo parlando di fede, della credenza in una o più entità divine. Secondo Michel de Certau, antropologo gesuita morto alla fine degli anni ’80, credere è un do ut des (io do per ottenere qualcosa in cambio). Credere è esattamente come sottoscrivere un contratto. Il credente infatti abbandona un qualche tipo di vantaggio nel presente creando una sorta di vuoto in se, dove un ‘futuro’ viene introdotto. Solo il tempo può portare al compimento del contratto e allo scambio tra la posizione del donatore e del beneficiario. Proprio in questo ritardo nasce la fede del credente. Se ci pensate bene, è esattamente il processo contrario del principio scientifico, il quale, propone un’eliminazione del tempo differito praticando una coincidenza immediata tra ciò che è dato e ciò che viene ricevuto. In altre parole, alla scienza non si crede, perché la questione che viene posta trova la sua totale e immediata corrispondenza nella risposta. La credenza invece, per sua natura, ha bisogno del tempo differito per originarsi nel credente. Per questo non ha senso dire: “Credo che la terra sia rotonda”, mentre posso benissimo dire di credere in Dio piuttosto che in Shiva.

 

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Michel de Certau

 

Torniamo alla metafora economica: il futuro creditore è disposto a concedere un credito al debitore quando quest’ultimo presenta delle garanzie di restituzione. Chi è dunque il garante della restituzione del debito per il credente? La parabola della credenza non parte dal credente in sé ma da una pluralità indefinita, cioè dalla comunità dei credenti. Essa stessa è origine della credenza e garante della restituzione del debito. Il singolo da solo non può credere, solo la comunità crede, o meglio il singolo da solo non può iniziare a credere, ma comincerà il suo percorso di fedele solo quando verrà introdotto nella comunità credente. Ecco perché in ogni religione esiste il rito del singolo che entra nella comunità di fedeli: il battesimo per i cristiani, il bar mitzvah per gli ebrei, la shahada per i musulmani, i vari riti di passaggio all’età adulta dei politeismi e via dicendo.

Se quindi il credente sacrifica qualcosa nel presente, cioè per esempio, decide di sottostare ad una particolare legge morale o di comportarsi in un certo modo, secondo i dettami della credenza, cosa ottiene in cambio? Quale retribuzione futura si aspetta? Prendiamo come esempio il cristiano: egli si impegna a rispettare la legge divina dei Dieci Comandamenti e seguire la via della Imitatio Christi e in cambio ottiene “il centuplo in questo tempo e la vita eterna” Mt 19,29. Tralasciando per ora “il centuplo”, ciò che a noi interessa è proprio la vita eterna cioè il des di de Certau. La retribuzione futura del cristiano è la proclamazione del Regno dei tempi finali così come annunciato nell’Apocalisse. Ma affinché l’ipotesi del Regno funzioni, come ci ricorda de Martino, un altro antropologo vissuto il secolo scorso, è necessario che venga continuamente rimandato. Il rinvio della promessa escatologica è fondamentale per l’operabilità del mondo: chiunque credesse infatti in un Regno immanente perderebbe subito ogni desiderio di vita terrena, rendendo il mondo inoperabile. Tutta la storia cristiana gioca sulla tematica del Regno che rischia sempre di distruggersi o di perdere di significato, sennonché la Chiesa funge da grande guaritrice dei rischi apocalittici differendo continuamente i tempi finali. A garanzia della promessa del Regno poi, non c’è nel cristianesimo solo la comunità credente, ma anche l’antecedente della prima parusia di Cristo. Ciò che permise al Cristianesimo di diventare una religione fondatrice di civiltà fu proprio questa paradossale tensione tra il già (la prima parusia) e il non ancora (la seconda parusia o venuta di Cristo e del Regno) “[…] questo stare permanentemente in tensione vigilante tra uno e l’altro, questo sentirsi garantito dal primo e sospinto verso il secondo, questo viversi di ciascuno nell’epoca dello Spirito Santo, della Chiesa, dell’apostolato, della testimonianza sino ai confini della terra, della buona novella da diffondere tra le genti in un rapporto dominato dall’agape. È appunto questa la forma cristiana, storicamente definita, dell’ethos che regge il mondo.” (E. de Martino, La fine del mondo). Nell’eucarestia, inoltre, la comunità dei credenti esperisce nuovamente tutta la tensione tra l’evento retrospettivo dell’Ultima Cena e l’orizzonte prospettico del banchetto dei tempi estremi. Proprio la celebrazione eucaristica ridischiude così la dimensione del presente (della presenza nel mondo, dell’esserci, del centuplo) instaurando quell’hic et nunc, il qui ed ora, che regge tutta la credenza e la civiltà cristiana. La particolarità del Cristianesimo sta quindi nella scansione del tempo storico. La storia è la storia della salvezza, storia del piano divino della salvezza, storia che non è più mera successione di momenti, non più Kronos (tempo ordinario) e non è nemmeno Aion (tempo eterno e assoluto) ma è Kairos il tempo storico in cui agisce il divino. 

 

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La nuova Gerusalemme, Gustave Dorè

 

In conclusione, parafrasando de Martino, per il Cristianesimo primitivo, dopo la passione, la morte e la resurrezione di Cristo, la storia del mondo comincia a finire. A garanzia dell’inizio della fine resta la discesa dello Spirito Santo, anticipo e segno della fine effettiva, cioè di quando il Signore negli ultimi giorni soffierà il suo Spirito su ognuno (Atti 2,17). Se, quindi la Pentecoste da una parte anticipa la fine, il banchetto eucaristico ripresenta l’evento centrale della storia della salvezza, quell’evento che segna il momento decisivo nell’economia della salvezza, in quanto celebrazione socializzata, istituzionalizzata, calendarizzata dell’ultima cena. La consapevolezza di una storia lineare che va verso una fine rende possibile il prolungarsi del tempo del mondo, creando un margine per l’operare umano, per la predicazione e la testimonianza del Vangelo. Proprio questo orizzonte assume un significato centrale: l’inizio della fine in quanto tempo della vigilanza dell’anticipazione dello Spirito della evangelizzazione, dell’amore, del Regno che cresce tra i fedeli è un iniziare e un continuare operativi, anche se mediati dall’attesa della fine. 

Fabio Darici

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