“Se Dio non c’è, io sono Dio”
Aleksej Nilič Kirillov
Qualche tempo stavo leggendo “Il mito di Sisifo” di A. Camus, ero giunto fino al capitolo “Kirillov” e iniziando a leggerlo compresi subito che sarebbe stato sbagliato procedere in quanto mi mancava il retroterra letterario per comprenderlo, mi mancavano cioè “I demoni” di Dostoevsky. Kirillov è infatti uno dei personaggi più emblematici e interessanti di questo libro. Il suo obiettivo dichiarato è quello di commettere suicidio, non perché ha una vita miserevole ma per affermare se stesso. Kirillov è un nichilista e vive nella contraddizione insostenibile dell’uomo moderno che sa che Dio non esiste, ma al contempo sa anche che Dio è necessario e bisogna che esista. “Non è già questa una ragione sufficiente per uccidersi?” Dice Kirillov, “mi ucciderò per proclamare la mia insubordinazione, la mia nuova e terribile verità”. Il suo è un suicidio logico, la ragione di Kirillov, dice Camus nel suo saggio, è di una chiarezza classica: “Se Dio non esiste, Kirillov è dio. Se Dio non esiste Kirillov deve uccidersi. Kirillov deve, dunque, uccidersi per essere dio.” In altre parole se Dio esiste tutta la volontà è in lui e di questo Kirillov non può liberarsi, se non c’è allora tutta la volontà è in Kirillov, la libertà è tutta in mano sua e l’atto supremo per affermare l’arbitrio è il suicidio. Si tratta di una logica assurda, come assurda è la vita di Kirillov. Kirillov il generoso come lo chiama alcune volte Stavrogin, si perché egli è, nonostante questa terribile premessa, un uomo dal cuore buono, che fa ginnastica la mattina, che gioca con i bambini e che si commuove per il ritorno della moglie di Chatov, eppure ad un certo punto nella sua vita è penetrata questa idea, la volontà di affermare totalmente la sua libertà. Kirillov quando afferma di essere dio precisa che non parla di un Dio-uomo ma di uomo-dio (super-uomo se volete), e assimila la sua figura a quella di Cristo, immaginando per un momento come egli, morendo in croce, non si sia ritrovato in paradiso e abbia allora capito che la sua tortura era stata inutile. Cristo quindi incarna perfettamente tutto il dramma dell’uomo che è sempre vissuto in una menzogna e che è morto per una menzogna. Egli è dunque l’uomo-perfetto, in quanto colui che ha realizzato la sua condizione più assurda. Il suicidio di Kirillov si assimila al sacrificio di Cristo, diventa un suicidio “pedagogico” che espleta la funzione di insegnare all’umanità l’assurdità della sua condizione, egli infatti crede fermamente che se ogni uomo conoscesse questa verità e non fosse così misero e pusillanime allora non esiterebbe a suicidarsi. Questo è, secondo Kirillov, l’unico destino logico per chi ha ucciso Dio. Dostoevsky spiega però, negli appunti del suo Diario, come la questione posta da Kirillov debba essere vista da un’altra prospettiva: “Se la fede dell’uomo nell’immortalità è così necessaria agli esseri umani, che senza questa finirebbero per uccidersi, vuol dire che è lo stato normale dell’umanità. Stando così le cose, l’immortalità dell’anima indubbiamente esiste.” Non a caso la vera risposta al dramma di Kirillov la troviamo solo nelle ultime battute dell’ultimo romanzo di Dostoevsky, una sorta di suo testamento spirituale. Ne “I fratelli Karamazov”, infatti, alcuni fanciulli chiedono ad Alioscia: “Karamazov, è vero quanto dice la religione, che resusciteremo dai morti e che ci rivedremo gli uni gli altri?” E Alioscia risponde: “Certamente, noi ci rivedremo, ci racconteremo giocondamente tutto ciò che è avvenuto”. Con la semplicità disarmante di quel “giocondamente” Dostoevsky annichilisce tutta la tragicità del pensiero autodistruttivo di Kirillov.
Fabio Darici
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