Prospettive geopolitiche italiane

Nominate Roma; è la pietra di paragone che scernerà l’ottone dall’oro. Roma è la lupa che ci nutre delle sue mammelle; e chi non bevve di quel latte, non se ne intende.

Confessioni di un Italiano, Ippolito Nievo

Parlare di strategia geopolitica per l’Italia è un paradosso, per l’opinione pubblica e per la classe dirigente di questo Paese è addirittura un tabù da offrire in olocausto sull’altare dell’economia e del post-storicismo. L’approccio strategico per l’Italia appare paradossale perchè irrealizzabile. Incardinati nel sistema imperiale americano, che illusoriamente consideriamo alleato alla pari, a tratti infatuati e a tratti irritati nei confronti dell’Unione Europea, di cui ponderiamo solamente i vantaggi o gli svantaggi economici, guidati infine da un’élite che sembra aver relegato la politica estera a mero suppellettile e appendice delle forme sotto cui si dipana il potere in questo nostro bel Paese (basti pensare al ruolo sempre più minimale ricoperto dal capo della Farnesina dell’ultimo decennio), non abbiamo ne la forza ne la volontà di implicarci in una prospettiva geopolitica.

Tuttavia, se a causa di circostanze esterne o interne ad oggi non sussistenti, la classe politica e la popolazione stessa, perchè in effetti da essa derivano gli stessi delegati politici, d’un tratto trovasse nuovamente affascinante condurre l’Italia verso obbiettivi strategici geopolitici, trovando magari il supporto di quel deep state che rievoca immediatamente cornucopie di teorie complottiste, ma che in realtà è la nervatura su cui si regge la potenza di uno stato moderno, se dunque tali premesse si verificassero, allora l’Italia dovrebbe probabilmente indirizzare i suoi sforzi in almeno tre direzioni.

La prima è aumentare il suo peso all’interno dell’Unione Europea. Ora, sebbene l’Unione Europea sia uno dei principali limiti della strategia geopolitica del nostro Paese e sia tutt’altro che indipendente dagli Stati Uniti, almeno fino a che questi valuteranno vitale l’importanza strategica dell’Europa, essa risulta essere imprescindibile. Significa che, pur non essendo la migliore condizione sotto la quale promuovere un rinnovato interesse strategico italiano, non possiamo farne a meno. Pertanto è necessario assumersi un maggior carico al suo interno in modo da parlare alla pari con Francia e Germania, che ad oggi sono i principali interlocutori della politica estera dell’Unione. La Brexit d’altra parte ha lasciato un vuoto di potere che l’Italia potrebbe occupare, ricordiamo poi che proprio la Gran Bretagna fungeva un po’ da cavallo di Troia americano all’interno dell’UE giocando di sponda con l’amministrazione statunitense piuttosto che supportare Bruxelles. Naturalmente l’affrancamento europeo nei confronti degli USA può avvenire solo con un mutamento dei rapporti tra le due parti. Un segno di ciò potrebbe essere una crisi dell’Alleanza Atlantica. Un alleanza serve fintanto che c’è un nemico, se la minaccia non è più presente l’alleanza si spacca. Nel momento in cui scriviamo la crisi in Ucraina pone sotto la lente di ingrandimento le intenzioni strategiche degli USA: passerà la linea di un rafforzamento dell’atlantismo o gli Stati Uniti saranno più preoccupati della Cina che delle sorti dell’Europa?

Il disinteresse americano ci porta direttamente al secondo punto, ossia sfruttare gli spazi lasciati liberi dagli USA, o almeno ad amministrarli a loro nome, in particolare quelli mediterranei. Prioritaria è la “quarta sponda”, anche se riguadagnare profondità nei Balcani, in particolare in Albania, non sarebbe di certo da disdegnare, tuttavia è la faglia con il continente Africano la nostra vocazione più diretta. La storia ci insegna che Roma è assurta a principale potenza solo dopo la sconfitta di Cartagine, l’Italia può dunque tornare a ritagliarsi un ruolo nel Mediterraneo solo se si assumerà la responsabilità di un controllo più diretto sulle sponde africane. Singolare tra l’altro come una potenza prettamente terrestre come la Roma repubblicana avesse compreso che la strategia vincente era il controllo del mare e di come una immediata trasformazione al mare della popolazione fosse impossibile fino al punto da aggiungere sulle proprie navi un gancio-passerella (il cosiddetto “corvo”) che permettesse di utilizzare le tattiche militari terrestri, di cui i romani erano maestri, per supplire all’inesperienza navale, salvo poi abbandonarlo quando Roma imparò ad andare per mare. La costa settentrionale dell’Africa quindi è l’obiettivo strategico dell’Italia. Per arrivare a ciò è necessario un rinnovato interesse per il mare, non inteso come mero luogo di balneazione estiva, ma come spazio da controllare attraverso la riscoperta di quella che una volta era tra le migliori marine militari al mondo. Siamo circondati dal mare eppure non lo riteniamo più nostro, abbiamo una posizione invidiabile da chiunque ma non riusciamo a sfruttarla; al centro del Mediterraneo abbiamo un’enorme portaerei fissa (la Sicilia) che ci permetterebbe il controllo su tutta l’area circostante e in particolare sullo stretto di Sicilia, da dove, volente o nolente, passano la maggior parte dei traffici commerciali al mondo, eppure lasciamo che flotte di altri Paesi si fronteggino davanti alle nostre coste e sfoggino le loro ammiraglie passando per lo stretto di Messina come in parata. 

Questi due primi punti si possono verificare soprattutto in seguito a determinate condizioni esterne, eppure a niente varrebbe una tale congiunzione se non si compiesse una condizione interna indispensabile, ossia un mutamento nel modo di essere e di pensare del popolo italiano, un cambiamento della cifra antropologica. Se la popolazione italiana difficilmente può invertire un trend demografico in declino (se non forse con un maggior apporto dei flussi migratori e loro successiva integrazione/assimilazione) deve quantomeno passare da un ordine di idee economiciste e post-storiche ad una mentalità pro-attiva e pronta a fare la storia non a subirla, anche a costo di alcuni sacrifici. Questo è lo scoglio più duro che l’Italia dovrebbe affrontare e che probabilmente non vuole affrontare perchè il ritorno alla storia verrebbe vissuto come un’involuzione anti-progressista. E qui giungiamo quindi, alla fine di questo nostro breve scritto, ad una necessità più a lungo termine e strutturale, cioè l’impostazione di nuova pedagogia nazionale che riscopra il mito fondatore dell’Italia, una nuova mitopoiesi che sia essa originata dal Rinascimento, dal Risorgimento o forse dalla stessa Roma imperiale, di cui tutti gli altri imperi successivi non sono altro che sue pallide imitazioni.

Fabio Darici

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