Teodicea musulmana

 

«Non dobbiamo perciò vergognarci di trovare bello il vero e di far nostro il vero da qualunque parte esso provenga, anche se viene da razze lontane dalla nostra e da popoli diversi: per chi ricerca il vero, nulla viene prima del vero; il vero non è diminuito ne abbassato da chi lo dice o da chi lo comunica, nessuno è svilito dal vero, ma anzi il vero nobilita tutti.» 

Abū Yūsuf Yaʿqūb ibn Isḥāq al-Kindī

 

Secondo J. Van Ess, islamista e semitologo, una delle differenze più rilevanti tra Cristianesimo e Islām è che il primo è un’ortodossia mentre il secondo è un’ortoprassi. In altre parole il Cristianesimo è una corretta via da seguire mentre l’Islām è un coretto modo di comportarsi. La teodicea, cioè la giustizia di Dio, è quindi per l’Islām uno dei passaggi chiavi da comprendere. Teodicea che si realizza nella parola šarī‛a, cioè Legge Divina. In questo breve articolo proveremo dunque a entrare nella forma mentis del metodo giuridico musulmano, provando a sdoganare la šarī‛a da tutta una serie di giudizi affrettati propinatici dai mass media.

La Legge, la šarī‛a, che poggia sui quattro fondamenti, principi o fonti che dir si voglia, cioè il Corano, la Sunna, il consenso dei dotti (iǧmā‛) e l’analogia giuridica (qiyās) è la forma ideale della legge. Il compito del giurista è quello di interpretare, di sforzarsi di comprendere (iǧtihād) la volontà di Dio. Il giurista ortodosso non si chiede le ragioni della scelta di una legge da parte del Legislatore, ma anela ad applicare la norma determinata da una scelta che comunque egli compie. Potrebbe sembrare un paradosso, ma in realtà il giurista percorre attraverso l’uso della ragione (‛aql) tutto un sentiero che dal caso concreto lo riconduce a quei principi (uṣūl) che sono i fondamenti della Legge. 

La differenza sostanziale con l’idea occidentale di giustizia è che la šarī‛a non è una serie di paletti giustapposti per mantenere chiaro il percorso che un musulmano deve seguire, non è una via per muoversi nel creato, ma è il Creato stesso. Non è pensabile una morale umana indipendente o magari che in minima parte sostituisca la totalità etica divina della Creazione, non c’è quindi separazione tra sacro e profano. La razionalizzazione nel diritto islamico è il riconoscimento dell’elemento divino, un processo che mira all’uso dell’aql teso a raggiungere quella forma perfetta di legge ispirata dalla Giustizia propria di Dio cioè ‘Adl. Pertanto nella šarī‛a si presenta l’unica giuridicità vera, l’unica soluzione a qualsiasi problema giuridico, la causa stessa necessaria e sufficiente del problema. Qui sta il punto: se non c’è scarto, almeno formalmente, tra la forma ideale e la pratica allora il diritto civile, che permette la coesistenza sociale di tutti gli uomini, e la Legge Divina non possono essere separati, in quanto si tratta semplicemente di due modi analoghi di esprimere il perfezionamento continuo della Giustizia Divina. Ne consegue che nell’Islām classico non c’è mai stata una legislazione, ma solo interpretazione. Interpretazione della Legge Divina applicata ai casi concreti. Il pensiero musulmano non concepisce una differenza qualitativa tra legge fisica e legge morale, entrambe sono state create da Dio, e la prima altro non è che l’aspetto statico-conservativo di quella creazione di cui la seconda è l’aspetto dinamico-teleologico. 

 

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Tutte le azioni dell’uomo possibili vengono quindi incasellate secondo il criterio di una loro maggiore o minore eticità nelle cinque categorie del doveroso, del raccomandato, dell’indifferente, del riprovato e del proibito, per poi essere rigettate o approvate. Ed è proprio in quella originale categoria dell’indifferente che il giurista gioca in pieno il suo ruolo in quanto maggiormente densa di lacune dell’ordinamento. La realtà naturale quindi incalza da tutte le parti la giuridicità, ogni situazione o cosa è soggetta al giudizio, d’altra parte è vero anche l’opposto, cioè che tutta la realtà è giuridicamente significante proprio per quel motivo che si diceva prima: non c’è distinzione tra Legge e Creato perché entrambe sono create da Dio. Eppure accade molto spesso che questa quintuplice differenziazione non esaurisca la completa casistica degli ahkām (plurale di hukm, cioè “norma”). Si distinguono perciò due tipi di ahkām: hukm taklīfī (norma obbligatoria) e hukm wad‛ī (norma soggetta a condizione/situazione). Il primo tipo è diretto a una relazione immediata con le azioni dei consociati, mentre il secondo è indiretto in quanto si sviluppa solo in un secondo momento, quando cioè si specifica l’hukm attraverso una circostanza o condizione. Il primo genera una proibizione immediata e assoluta, il secondo invece non obbliga, non raccomanda, non lascia libertà di scelta, non riprova e non proibisce di per sé ma è un indeterminato che diviene norma solo se associato a qualcosa che lo determini. 

Proprio nel caso del hukm wad‛ī, il giurista deve compiere il lavoro più importante. Nel hukm wad‛ī sta tutta l’apparente contraddizione e paradosso della giurisprudenza islamica, infatti, in quanto caso particolare non ascrivibile alle norme generali, esso pesa tutto sul giudizio soggettivo del giudice. Cerchiamo quindi di approfondire la natura di questi ahkām wad‛ī. Secondo la dottrina esistono tre opinioni in proposito: 1) gli ahkām wad‛ī sono in numero infinito, ogni disposizione infatti può essere formulata indirettamente; 2) tutti gli ahkām wad‛ī andrebbero riportati al concetto di ahkām taklīfī, scorporandosi in due o più coordinate; 3) la posizione intermedia afferma che gli ahkām wad‛ī siano un numero determinato. In teoria la prima e la terza opinione potrebbero essere ridotte ad un unico gruppo, infatti sarebbe sufficiente indicare in modo generico in una causa determinata tutte le eccezioni, e allo stesso modo è possibile indicare le stesse in un numero infinito di cause. Questo almeno astrattamente, in pratica la discussione sugli ahkām wad‛ī e la presentazione di numerosi elenchi di eccezioni causa un’imprecisione estrema. La legislazione Divina è quindi tutta basata sul taklīf che prescinde da qualsivoglia considerazione delle forme specifiche, delle circostanze e delle necessità dei consociati. Tuttavia i giuristi sentono la necessità e l’esigenza degli ahkām wad‛ī come categorie reali e pragmatiche. Perciò l’hukm in quanto taklīf pone la norma “cieca”, e in quanto wad‛ pone la differenziazione. In sostanza l’intervento divino sotto forma di norma (hukm) presuppone una realtà umana non ancora differenziata, non una società, ma una realtà naturale. Sarà poi l’intervento del giudice che differenzierà e adatterà la norma alla realtà sociale in cui vive. Tornando al secondo gruppo di opinioni invece notiamo che l’intervento divino pone soltanto innumerevoli taklīf, permeando tutta la realtà, sia naturale che sociale. Si presuppone quindi un intervento divino in una realtà umana già completamente differenziata in status, situazioni e qualità. In ogni caso l’hukm wad‛ī non è una categoria parallela all’hukm taklīfī, ma solo l’eventuale specificazione, che non da luogo a categorie, ma solo a casi singoli riportabili a categorie di taklīf. In sintesi, “dirette” sono le categorie e “indiretti” i singoli casi. “Diretto” è il proibire, il riprovare, il raccomandare, “indiretti” sono i singoli casi di proibizione, riprovazione e raccomandazione, che il giurista deve studiare e giudicare volta per volta tecnicamente, cioè utilizzando ‘aql e iǧtihād. 

Il giurista deve limitarsi a interpretare le fonti positive, utilizzando quindi il ragionamento logico. Ragionamento che in ultima analisi non può che fornirgli sempre ed esclusivamente solo un metodo per ricercare il naql (propriamente “mezzo di trasporto” e si riferisce alle fonti originali, trasmesse fedelmente una volta che la loro autenticità è stata accertata. Spesso è usato in contrasto la parola ragione, ‘aql, che permetterebbe di giungere ad un giudizio solo tramite la logica). Al di fuori della Rivelazione, c’è solo la ricerca della volontà divina indirettamente manifestata, ricerca da attuarsi con mezzi umani, ma resi legittimi dalla Rivelazione stessa. Tutte le fonti, i principi del diritto musulmano sono derivate dalla fonte prima ed essenziale: il Corano, e trovano in esso la propria giustificazione. Il sistema giuridico musulmano porta alla luce l’originalità dell’Islām: il riconoscimento del Divino e la soluzione religiosa in tutti i problemi umani, ma al tempo stesso  una concezione storica della religiosità, e il rispetto per tutti i valori e i casi giuridici.

 

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Cerchiamo dunque di arrivare ad una conclusione. La sharī‛a deve necessariamente tradursi in fiqh (cioè diritto positivo), con una dinamica di potenza-atto. Il fiqh poi conserva tutti i tratti della totalità etico-giuridica della Legge Divina, ma acquisisce anche una connotazione positiva e particolare. In un certo senso gli ahkām shar‛ī, i principi della legge, indicano la direzione che il diritto positivo, il fiqh, deve prendere. Il metodo che il giurista usa per esprimere un giudizio, una norma, un hukm, si fonda su strumenti e percorre vie che non sono nella sharī‛a, ma vengono riportate alla sharī‛a. Perciò l’hukm shar’ī (la Norma della Retta Via) è l’ideale della Norma che attende un’interpretazione per farsi norma concreta.

Nonostante la complessità della questione e l’utilizzo di una certa terminologia poco consueta, ma necessaria per poter parlare con precisione della teodicea islamica senza cadere nella superficialità informativa imperante nel mondo d’oggi, siamo giunti a delineare un panorama abbastanza chiaro del modo di pensare musulmano. Modo di pensare che oggi è troppo spesso ricondotto alla sola forma fondamentalista e chiusa di una minoranza che sebbene si autoproclami come ritorno e riscoperta dell’età dell’oro musulmana conosce ben poco di ciò che era l’Islām classico.

Fabio Darici

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