Il cavallo e il bambino appunti su Charlie Mackesy

Il tentativo, quasi sempre fallace, di istituire un complesso organico e potenzialmente interessante di considerazioni e pseudo-intuizioni artistiche relative all’operato di un artista del tutto sconosciuto alla critica e ai più, costituisce il vertice di un autoerotismo culturale consolidato e perpetrato ai danni di chi, per fortuna pochi, continua a leggere i miei articoletti.

Ora, le righe che seguono avrebbero forse meritato il titolo inglese “The boy and the horse”, certamente meno cacofonico di quello comunque scelto, per ragioni linguistico-patriottiche, dal sottoscritto per tentare di approcciare l’arte di Mackesy e che pure presenta, chiariamolo subito, un significativo errore. Nei disegni, infatti, cui per la prima volta è concesso uno terreno italiofono di presentazione, oltre ad un bambino e un cavallo, compaiono fondamentalmente altre tre componenti figurative: una talpa, una volpe e un testo più o meno corposo. Una volta chiariti questi elementi, prima di indulgere in romantici afflati di significazione e vaghi accenni di stile, concedetemi qualche riga su Charlie.

Nel suo sito ufficiale si legge: “Charlie Mackesy vive a Brixton, a sud di Londra. È nato durante una fredda e nevosa serata d’inverno nel Northumberland. Ha frequentato il Radley College per qualche tempo e le scuole superiori Queen Elizabeh, tra le altre, ma ha sempre preferito andare a caccia nel bosco, disegnare cartoni e fare il bagno nel fiume Tyne. Si è iscritto all’università due volte, entrambe per quasi una settimana, prima di capire che il corso sul rapporto tra disegno e teologia che cercava, non esisteva, nemmeno a Cambridge”.

 

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Le scelte autobiografiche paiono chiare: la date, i tecnicismi, i concorsi vinti e gli attestati lasciano spazio, ampio spazio, ad una generale sensazione di bucolica leggiadria, di campo aperto, di boschi fronzuti, in quella che sembra l’infanzia luminosa e verde di un Christopher Robin teologo. Eppure, se continuassimo la lettura sveleremmo l’immagine di un uomo che rilegge la sua vita in virtù di una luce nuova.

Dal suo fervente ateismo sboccia infatti improvviso un fiore, una fede inattesa nata dopo l’ascolto di un canto gospel. Il canto, così, il canto riecheggiante delle chiese, acuto come le guglie di una cattedrale, illumina retrospettivamente una vita intera, un percorso che si fa lieto, leggero, baldanzoso, e che invade il disegno infondendogli grazia.

Il tratto è perciò dinamico, esile: china nera su foglio bianco. È un segno poetico come lo è il gradiente dei testi che accompagna: ricorda Sheperd, Exupery. Rievoca l’Ideale del bambino (di evangelica memoria) così lontano dall’infantilismo e così simile invece all’esito continuo di un processo che si attua per negazione, per sottrazione di ciò che è superfluo, in più. Questo si riflette naturalmente nella sintesi grafica, nell’essenza di un gesto che si fa traccia più che tratto, abbozzo più che opera finita.

 

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La gang del bosco così composita e così accennata, non è soltanto (o per lo meno non lo è solamente) l’esercitazione manuale del profilo equino, nè la rievocazione nostalgica di un uomo troppo cresciuto, ma piuttosto lo svolgimento, il proseguire di una avventura se non spirituale quanto meno psicologica della quale ci si presentano le soste, le pause, le prese di coscienza.

E se cercassimo, come stiamo facendo, di abbandonare al loro silenzioso galoppo questi disegni, potremmo attribuirgli, non cedendo alla tentazione di ridurli (forse giustamente) all’esempio perfetto di un dolce tatuaggio femminile, il valore di un sentiero laterale, di un passaggio nascosto tra le piante, di un tracciato discreto e forse proprio per questo interessante nella produzione artistica di un affermato artista inglese che ha “visto la luce”. Rimarrebbero soltanto da capire, e non lo faremo, i riferimenti biografico-simbolici dei personaggi, le valenze paesaggistiche, gli effettivi debiti testuali. Preferiamo volontariamente “sbagliare” scorgendo nel piccolo interlocutore un bambino Gesù, un Piccolo Principe ancora in viaggio, e lasciare a chi (magari per la prima volta) posa lo sguardo su questi disegni, l’ardua e divertente impresa di recuperare significati.

Giovanni Scarpa

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