“Annidatevi/nella dimora in cui secca la paglia/ o amici passeri”. È così che l’ amico medico Jinjun accoglie lo strano stormo di vagabondi che popolano le avventure di Matsuo Bashō. E non occorre dilungarsi molto, credo, nel presentare ai lettori questo rinomato compositore di Haiku dell’epoca Edo, emblema del poeta errabondo e solitario, custode della tradizione e al contempo incredibile innovatore… Purtuttavia non molti, pare, hanno saputo cogliere quella sua delicata e persistente convivialità, quel suo non essere mai solo. Perché mentre attraversa le aspre montagne settentrionali, il fiume Bianco e i vasti campi coltivati, si alternano al suo fianco, al pari di teatrali comparse, figure tanto discrete quanto chiacchierone. Bonchō, Sora, Ukō, Kyorai, Senna, Fumikuni, Jōsō, Otokuni, Tokoku, Riyū, Shōhaku, Kyoroku, sono solo alcuni dei tanti nomi che si leggono nei suoi suggestivi diari (le migliori edizioni rimangono forse ancora quelle edite da SE).Lo notava, tra i pochi, il critico Akutagawa nel 1927: Basho incarna alla perfezione la contraddizione di un poeta che non sa o non vuole infondo essere un asceta.
La sua natura è relazione, con la Natura, con gli uomini, con tutto ciò che incrocia il suo spirito, che accade nel cammino. Relazione che non è censurata in alcun modo, o taciuta, se non da una voce narrante che passa dalla prima persona plurale a quella singolare. Le fraterne presenze che lo accompagnano passo dopo passo condividono così lo spazio del suo diario consegnandogli a volte un bizzarro respiro corale, meravigliano lo stesso poeta, si alternano come protagonisti-autori dei suoi scritti. “Durante il giorno può accadere che i miei sentimenti siano animati dai colloqui con le rare persone che vengono a trovarmi” scrive ne Il Romitaggio della dimora illusoria, “un vecchio custode del tempio e alcuni uomini del villaggio, latori di racconti per me inconsueti sulla vita agreste: cinghiali che distruggono piantine di riso, lepri che frequentano i campi di fagioli, e altre cose simili a queste” . Persino il locandiere che li ospita sul sentiero dell’Oku, Hotoke, trova spazio per presentarsi ai lettori: “Mi chiamo Hotoke Gozaemon. La gente mi ha dato questo soprannome perché l’onestà è il principio che regola la mia vita…”. È una serie infinita di volti, di storie che si intrecciano più o meno consapevolmente: amici lontani, conoscenti, sconosciuti. “Mi reco da un tale” scrive ancora ne il Romitaggio, “di nome Jōbōji, amministratore della villa del signore di Ali Nere. L’ospite mi accoglie con sorprendente cortesia, trascorriamo giorni e notti a conversare; un fratello minore, chiamato Pesca di Giada, viene mattina e sera a trovarci e vuole che lo segua a casa sua e lì mi trattenga”. O ancora, andando verso Saga: “Convinciamo Ūko e il marito a trascorrere con noi la notte: essendo in cinque a coricarci sotto un’unica zanzariera, stentiamo a prender sonno e così, dopo la mezzanotte, ci alziamo a uno a uno spontaneamente, prendiamo i dolci e le coppe del giorno prima e rimaniamo a conversare fino all’alba”. Ripartendo, alcuni giovani lo accompagnano: “Appoggiandomi al bastone avanzo verso il Tempio delle Rocce e delle Nuvole. Alcuni mi si offrono come accompagnatori, e mentre ci inoltriamo lungo il sentiero i giovani ridono e scherzano”.

Ecco, insomma, raramente Basho si trova davvero solo, e quando capita lo annota, lo segnala come qualche cosa di anormale, insolito: “ventisettesimo giorno, non viene nessuno a trovarmi. Riesco a star solo tutto il giorno”.
È una solitudine anomala la sua, una solitudine che ammette compagnia. La consapevolezza acuta del suo personale sentire e al contempo la certezza della partecipazione trasversale di ciascuno all’avvenimento poetico che non gli appartiene, permea le sue pagine regalando ai lettori la leggerezza dei giullari, il sorriso di chi sa vedere nell’altro un bene prezioso. È una consapevolezza chiara dell’uomo inteso come parte integrante di un creato che ci vede tanto spettatori quanto custodi, partecipi di una infinita, fugace esperienza di trasformazione e rinascita che vale la pena vivere sì, ma vivere assieme.
Giovanni Scarpa
Rispondi