THANOS

«Sembra una processione». Ed è così. I corridoi si ingorgano in silenzio o tra le parole sottovoce di qualcuno che divertono il discorso. Guardo succedersi – sotto i miei piedi – il profilarsi bianco delle luci che seguono l’angolo di ciascun gradino fino alla lettera della fila… incandescente. Il torii si innalza dall’acqua rossa e tra l’aria di sangue. «L’hai fatto?». «Sì». «E quanto ti è costato?». «Tutto». La bambina sotto il portale. Thanos fuori.

Non è normale uscire così da un film Marvel. Ma quello che più mi ha colpito sono state le reazioni delle persone che avevo attorno e dei miei amici. Prima silenzio. Poi, o nel frattempo, coprire il silenzio con piccole parole. Infine trovare soluzioni. Io ho preferito fermarmi in gran parte al silenzio. «Beh, sono in programma altri film, dunque…». «Forse creeranno un universo parallelo…». Sono più o meno questi i commenti nell’auto mentre riporto indietro gli altri merd (come li chiama Edoardo Rialti, scambiando la nasale). Un mio amico, alla soglia dell’appartamento, prima di uscire, mi confida il suo turbamento. Quando ero uscito dal cinema avevo detto: «È la morte». Ora gli dico: «Noi crediamo in un Dio risorto. Recitiamo il Memorare».

Avengers: Infinity War lascia quel silenzio. Il titolo alla fine sparisce. In coriandoli di terra. Ripensando al film, viene in mente il finale della poesia di Totò ‘A livella:

“Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!

T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella 

che staje malato ancora e’ fantasia?…

‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,

trasenno stu canciello ha fatt’o punto

c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:

tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti…nun fa”o restivo,

suppuorteme vicino-che te ‘mporta?

Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:

nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”

La morte è una livella e ad essa appartiene sia «il nobile marchese / signore di Rovigo e di Belluno», sia «Esposito Gennaro – netturbino». Sia il supereroe. Il silenzio iniziale del finale del film e i discorsi che passano ad altro o trovano soluzioni, sono in definitiva le stesse reazioni che abbiamo davanti alla morte. Ed essa ci passa sempre molto vicina – perfino nella vicinanza con personaggi inesistenti, eppure diventati cari a molti, attraverso le varie pellicole che hanno portato alla Infinity War, attraverso insomma quella forma d’arte che è il cinema. E più la morte ci è vicina, più ci silenzia – di un silenzio che deve gridare.

Là sgomento li ha colti,

doglie come di partoriente,

simile al vento orientale

che squarcia le navi di Tarsis.

Il divertissement e il parlare d’altro e il costruire con le proprie mani un senso, sono paraventi o sfoghi troppo piccoli alle cardiache doglie davanti alla vicinanza della morte. Risposte posticce provocate dal suo passaggio che fa rovinare senza fondo il cuore. Se ci affacciamo a guardare la ruina nel petto, anche attraverso uno spiraglio, non possiamo non sentire una intima contraddizione, la domanda che aumenta e un bisogno di rispondere. Il religioso silenzio processionale nella sala cinematografica e il turbamento del mio amico davanti casa, ma direi pure il distrarsi e tentare di risolvere a posteriori, sono conseguenze dell’abisso che apre in cuore la morte – lo vogliamo o non lo vogliamo. Scriveva Don Giussani ne Il senso religioso: «L’orizzonte cui l’uomo arriva è come un segno di tomba; la morte è l’origine e lo stimolo a tutta la ricerca, perché l’insondabilità della domanda umana proprio lì trova la contraddizione più potente e sfrontata. Ma questa contraddizione non toglie, bensì esaspera, la domanda».

Questo film inoltre aggiunge due ulteriori pesi alla domanda. Il primo è costituito dal sacrificio inutile per il Bene. Il secondo è la libertà che persegue fino in fondo il male, sacrificando il Bene, dando tutto. Mi riferisco a tutti i sacrifici compiuti dai supereroi «buoni» e alla libertà di Thanos. Quante volte i sacrifici per il Bene che facciamo sembrano assolutamente inutili? E quante volte la nostra libertà – pur di seguire una propria immagine di Bene – sacrifica l’unica cosa che ama? Il senso del sacrificio e del dolore e la libertà, in sintesi. Come il sangue marino e aereo della scena tra Thanos e Gamora – Gamora triste alla soglia del Mistero, Thanos fuori. Il triste Thanos – Θάνατος – che, dopo le lacrime sull’abisso, sorride guardando il tramonto. Senza nessuno a cui sorridere.

Morte, sacrificio-dolore e libertà.

Molte volte, andando in cimitero, luogo per me di silenzio, preghiera, dolore, speranza e pace, mi dico che l’unica salvezza possibile, l’unica risposta possibile alla vicinanza della morte, risposta che non sia ancora una volta parziale o posticcia, dovrebbe essere vicina come lei, concreta come il marmo freddo e le ossa che custodisce. Così concreta non solo da accettarla, ma perfino da gioirne. Forse solo un pazzo potrebbe gioire della morte. «Com’è possibile che uno, vicino a morire, esprima così viva letizia? Farebbe meglio a pensare alla morte!». Frate Elia così parla, riportando la possibile domanda degli abitanti di Assisi nel sentire risuonare di giorno e di notte le Laudi del Signore, cantate da poveri acrobati, attorno al Giullare di Dio Francesco d’Assisi. Frate Elia così rimprovera il Giullare di Dio di morire cantando. Nella dura sofferenza e malattia, il canto alla «dolce Morte sorella», lodando Dio. Solo uno che cammina sulle mani e a gambe all’aria, può morire così – a testa in giù – e gridare in un impeto di furore: «Fratello, lascia che io goda nel Signore e nelle sue Laudi in mezzo ai miei dolori, poiché, con la grazia dello Spirito Santo, sono così strettamente unito al mio Signore che, per sua misericordia posso ben esultare nell’Altissimo!». Antonio di Padova cantò all’Arcella – nel convento di clarisse fondato dal Giullare di Dio – alla sua Gloriosa Domina, Maria che lo ristorò nella stanchezza, Maria Mater Domini. La stanchezza di fare costantemente non la propria volontà, ma la Sua. Per cui dal Portogallo finì a Padova. E per cui perfino in morte non poté arrivare all’amata chiesa di Maria Mater Domini – com’era secondo la propria ultima volontà. Ma Antonio canta. La Sua volontà. Canta alla sua Gloriosa Signora. Finestra nel cielo, Porta dell’alto Re, Porta di fulgida luce, per la quale gli stanchi e oppressi, sono ristorati per sempre. La Sua volontà: «Video Dominum meum!». «Vedo il mio Signore!». Questi pazzi esistono. Fra essi, Elena Bono, ne I galli notturni, scriveva una poesia intitolata Alla morte:

Quando mi coglierai di qui

per trapiantarmi altrove

noi parleremo insieme,

a lungo tranquillamente,

vecchio giardiniere, antica sapienza.

Ma qualche parola mi giunge

al di qua dei cancelli

e il tuo sorriso e il buon odore di terra

delle tue mani,

o giardiniere bianco, sapienza divina.

Anche lei acrobata, dei Giullari di Dio, scrisse altresì una Ballata in tre tempi per San Francesco, di cui riporto il terzo, ossia Canto di Francesco cieco nel palazzo di città quando Frate Elia lo rimprovera di morire cantando:

Madonna Morte, per danzare insieme

la grande entrée a quel ballo di Corte

a cui voi mi invitaste or son tre lune

vorrei avere la veste a due colori

– verde smeraldo e rubino fiammante –

la damascata veste e sopravveste

che solevo indossare ai folli giorni

delle liete brigate spenderecce

non questo sacco logorato

color cenere spenta.

Madonna Morte, viso perlato e fino,

molte canzoni a ballo vi cantai

sera e mattino vi cantai

da quando mi invitaste or son tre lune

e i cacciatori illusi

mi rinchiusero tosto in questa gabbia,

molto vi vagheggiai

come fringuello cieco

e innamorato.

Che non lo prenda in male e gelosia

– tanto ne chiedo a Dio –

Madonna Povertà, la sposa mia,

ma troppo mi lusinga il vostro invito

dolce Morte sorella,

e il cor mi sbatte forte

pensando a quel momento

che danzeremo insieme

entrando con voi a Corte

la mano nella mano

Madonna Morte.

Perché questi tre pazzi gioiscono della morte? Perché per loro ha un Volto preciso e concreto. Quello a cui Thanos non può sorridere. E che Volto? Un Volto concreto, di carne. «Nel ventre tuo si raccese l’amore», così pregava Bernardo a Maria nel XXXIII del Paradiso della Divina Commedia. Sant’Agostino parimenti affermava: «Tabernaculum eius, caro eius». La dimora di Dio, è la Sua carne, secondo la traduzione di Don Giacomo Tantardini in una Meditazione tenuta a San Leopoldo nel 18 dicembre 2002. Ne riporto un frammento:

Diceva Péguy: che cosa è un bambino cristiano rispetto a un bambino non cristiano? «Un bambino cristiano è un bambino al quale migliaia di volte è stata presentata davanti agli occhi l’infanzia di Gesù». E stata presentata la storia di Gesù. Non delle idee, ma la storia di Gesù. E così le domande non dobbiamo artificiosamente suscitarle noi. E la realtà che desta le domande al cuore. E la vita che pone le domande. E la risposta a tutte le domande che la vita pone non è una spiegazione cristiana che diamo noi. La risposta a tutte le domande che la vita pone è l’umanità di Gesù. La risposta al dolore è Gesù e questi crocefisso. Il Venerdì Santo è morto in croce. E la notte precedente, quella notte del Giovedì Santo ( noctem cruentam criminis / quella notte cruenta di quel crimine così grande), quella notte ha sofferto fino a sudare sangue nell’orto del Getsemani. E poi il processo, la flagellazione, la coronazione di spine. La Sua umanità! Non la risposta cristiana che ci inventiamo noi. Questa Sua umanità, guardare la Sua umanità è risposta al dolore. E così il mistero rimane intatto, e nel cuore, se il Signore lo tocca, rimane compiuta l’attesa e compiuta ogni risposta.

«Guardare la Sua umanità è risposta al dolore». Una cara amica mi ha chiesto: «Che senso ha il dolore?». Elena Bono risponderebbe con lo sguardo di Gesù che si voltò a guardarla. Risponderebbe con Morte di Adamo. La risposta sarebbe la sua vita: crocifissa in tutto, in tutto il centuplo. Quando io ti chiamo, dici, in Invito a Palazzo:

Quando io ti chiamo, dici:

– L’Imperatore mi ha fatto

Custode del Tesoro,

gli ho giurato servizio

per il resto dei giorni. –

Io ti dico: – Rimani al suo servizio

scrupoloso e fedele,

ma lascialo ugualmente

e vienimi dietro cantando. –

Quando io ti chiamo, dici:

– Ho tre piccoli figli

e vecchio padre e madre

cui debbo provvedere. –

Io ti dico: – Continua a provvederli

con rispetto ed amore,

ma lasciali ugualmente

e vienimi dietro cantando. –

Quando io ti chiamo, dici:

– Questo letto mi tiene

inchiodato dal male. –

Io ti dico: – Rimani sul tuo letto

in paziente dolore, ma lascialo ugualmente

e vienimi dietro cantando. –

Il dottor Nagai, vittima della bomba atomica, risponderebbe con le parole del 25 novembre 1945, quando fu invitato a prendere la parola in occasione di una Messa da Requiem celebrata accanto alle rovine della cattedrale di Urakami: «La mattina del 9 agosto una bomba atomica esplodeva sopra al nostro quartiere. In un attimo, 8000 cristiani furono chiamati a sé da Dio… A mezzanotte, quella sera, la nostra cattedrale si incendiò all’improvviso e fu distrutta. Nello stesso istante, al Palazzo Imperiale, Sua Maestà l’Imperatore fece conoscere la sua decisione… Il 15 agosto, l’editto imperiale che metteva fine ai combattimenti fu promulgato ufficialmente e il mondo intero scorse la luce della pace. Il 15 agosto è anche la grande festa dell’Assunzione di Maria. Non per nulla la cattedrale di Urakami le era stata consacrata… Non vi è forse una relazione profonda fra l’annientamento di questa città cristiana e la fine della guerra? Nagasaki non era la vittima scelta, l’agnello immacolato, olocausto offerto sull’altare del sacrificio, morta per i peccati di tutte le nazioni durante la seconda guerra mondiale?… Siamo riconoscenti che Nagasaki sia stata scelta per tale olocausto! Siamo riconoscenti perché, attraverso questo sacrificio, la pace è stata data al mondo, e la libertà religiosa al Giappone». Parole folli come l’Exultet del Sabato Santo, in cui la Chiesa impazzita grida: «O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem!». Quella stessa colpa da cui venne il dolore e la morte! Folli parole se non fossero delle persone in carne ed ossa. E la prima persona in carne ed ossa fu un uomo solo in carne ed ossa. Che alle soglie del sepolcro disse: «Maria». Mostrò e fece penetrare il dito nelle piaghe gloriose. E sulla riva del mare chiese: «Mi ami tu?». Se non fossero, subito dopo di Lui, quasi inseriti in Lui e nelle Sue piaghe, una schiera di carni e ossa, di persone, che mostrano il cammino nel dolore, il sacrificio che dà frutti eterni, la morte che si apre come la porta di casa, cantando il Regina Caeli.

Così apro la mia meditazione partita da una semplicissima serata al cinema. Meditazione che non vuole risolvere nulla. Solo invitare a lasciarsi scavare a fondo dalla vicinanza della morte, dal senso del dolore e del sacrificio e da qualche parola concreta che giunge «al di qua dei cancelli», come «grande gioioso soffio». E personale preghiera; grido di un poveraccio impaurito dalla «dolce Morte sorella» che – in quell’ora tremenda in cui lo inviterà a danzare insieme – desidererebbe cantare alla sua Gloriosa Signora e vedere il suo Signore. Perché sa che così – se venisse il suo Signore e Lo vedesse – non avrebbe paura.

Infine lascio, al caro e triste Thanos, meditare alcuni versi davanti al sole morente:

Vexílla regis prodeunt;

fulget crucis mystérium,

quo carne carnis cónditor

suspénsus est patíbulo.

 

Quo, vulnerátus ínsuper

mucróne diro lánceæ,

ut nos laváret crímine,

manávit unda et sánguine. 

 

Arbor decóra et fúlgida,

ornáta regis púrpura,

elécta digno stípite

tam sancta membra tángere! 

 

Beáta, cuius brácchiis 

sæcli pepéndit prétium:

statéra facta córporis,

prædam tulítque tártari. 

 

Salve, ara, salve, víctima,

de passiónis glória,

qua vita mortem pértulit

et morte vitam réddidit. 

 

O crux ave, spes única!

hoc passiónis témpore! 

piis adáuge grátiam,

reísque dele crímina. 

 

Te, fons salútis Trínitas,

colláudet omnis spíritus:

quos per crucis mystérium

salvas, fove per sæcula. Amen.

 

Gesù Congdon

 

Emanuele Giraldo

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