Uno spettro si aggira per l’Europa: il Natale. E, con buona pace di Marx e di Dickens, lo spirito del Natale non ha alcun aspetto terrificante, davanti a questo fantasma non ci si copre la faccia. Si ammanta di rosso davanti ai negozi, mostra le sue gioie accecanti e, anche se è tutta bigiotteria, almeno, sotto i capelli di finta neve, nasconde tanta tanta dolcezza. Una fetta di dolce in fondo fa parlare meglio il cuore. Soprattutto quello dei diabetici scompensati.
Questo spiritello fa parte di una casa ben più grande e ben più infestata che Philippe Muray definiva l’Impero del Bene. «Davanti a noi un eterno Mattino Magico». Il corteo del perbenismo e buonismo dilagante trova il suo Lajkonik invernale proprio nell’ectoplasma natalizio che rende tutti più buoni, generosi e dolci. Basta guardare le città agghindate a festa – una festa dalle radici tagliate, abeti o funghi notturni apparsi d’improvviso nelle piazze –, le pubblicità sempre sorridenti di zucchero filato e i video di auguri che imperversano su WhatApp – scatole di cioccolatini che cantano Jingle Bells o assoli che si trasformano in caldi cori nel gelo di dicembre – video che causano innumerevoli infarti per iperglicemia.
Un santo bevitore di prosecco, quale il sottoscritto, se non fosse misantropo, prenderebbe per la collottola qualche lento passante con i regali per i parenti, per gli amici e pure per il fedelissimo cane, rigorosamente in culla o in braccio, e griderebbe fuori di sé: «Perché?!?». Dopo una pausa evocativa, la risposta a 32 denti del piccolo aiutante di Santa Claus sarebbe: «Perché è Natale!».
Qui habet aures audiendi, audiat. Non è solo un J’accuse contro l’effetto cioccolatino, ma è un attacco crociato contro qualcosa di strano e terribile. E qui sì che lo spettro ritorna ad essere quello che è: davvero strano e terribile. È lo stigma della superficialità.
Ben scriveva Elena Bono in un articolo dal titolo Dante non è ambiguo:
“Dice un salmo di David: Buio è l’interno dell’uomo e il suo cuore: mens cuiusque et cor sunt profunda. Quanto dire che non un’invenzione letteraria d’oggi ma connessa da sempre alla condizione umana è l’inconoscibilità, o quanto meno la fatica terribile e sovente inane per l’uomo di decifrare se stesso e gli altri: questo nostro procedere a tentoni per il terreno accidentato, precipitoso ed oscuro che noi siamo. La poesia è ciò che, come l’amore, non ha mai temuto di calarsi in siffatte voragini per farvi chiaro: il riscatto poetico altro non è se non portar fuori dalla caverna l’essere piegato e piagato che vi giace e liberare il suo gemito in parola. È questa forma di liberazione che l’arte moderna raramente assolve. Assumendo nel termine «parola» il significato, da una parte, di un superamento dello stato d’angoscia esistenziale in consapevolezza e dignità di dolore – ossia in civiltà del dolore –, e dall’altra, di un farsi dello spirito che non si restringe per il cristiano in termini immanentistici ma si dilata ad operazione dello Spirito di Dio in noi suoi collaboratori, a un Veni Creator Spiritus ben più letterale di quel che Croce intendeva, si può dire questa crisi di Valori universalmente denunciata, anche crisi della parola.”
Sarà allora salutare nel tempo di Natale leggere qualche canto di Leopardi per accostarsi alla buia forra che abbiamo in mezzo al petto. Andrà bene anche La storia di Kullervo di Tolkien e la sua tragicità nordica. Eccone un assaggio, appunto in versi:
Wherefore have I been created?
Who has made me and has doomed me
Thus ’neath sun and moon to wander
’Neath the open sky forever?
Others to their homes may journey
That stand twinkling in the even
But my home is in the forest.
In the wind halls must I slumber
And in bitter rain must bathe me
And my hearth is midst the heather
In the wide halls of the wind blast
In the rain and in the weather.
Never Jumala most holy
In these ages of the ages
Form a child thus crooked fated
With a friendless doom forever
To go fatherless ’neath heaven
And uncared by any mother
As thou, Jumala, hast made me
Like a wailing wandering seagull,
Like a seamew in the weather
Haunting misty rocks and shoreland
While the sun shines on the swallow
And the sparrow has its brightness
And the birds of air are joyous
But that is never never happy.
I Sāri am not happy.
O Ilu, life is joyless.
I was small and lost my mother
I was young weak and lost my mother.
All my mighty race has perished
All my mighty race.
Perché mai sono stato creato?
Chi mi ha fatto e chi mi ha mal destinato
a errare così sotto il sole e sotto la luna
sotto il cielo aperto così per sempre?
Altri possono camminare verso casa
verso la casa che riluce nella sera
ma la mia dimora è nella foresta.
Debbo dormire in stanze di vento
e lavarmi sotto piogge amare
e tra l’erica è il mio focolare
nelle ampie sale dove il vento imperversa
sotto la pioggia e con ogni tempo.
Mai Jumala tu santissimo
nell’epoca presente nelle epoche passate
formasti un bimbo dal destino più avverso
con un fato in eterno nemico
che senza padre vagasse sotto il cielo
e fosse privo delle cure di una madre
come tu, Jumala, hai creato me
come un gabbiano che vaga e che geme
come una gavina nel maltempo
che resta sugli scogli e su rive avvolti di nebbia
mentre sulla rondine il sole risplende
e il passero ha la sua lucentezza
e gioiosi sono gli uccelli dell’aria
mentre lui mai è felice.
Io Sāri non sono felice.
Oh Ilu, priva di gioia è la mia vita.
Ero piccolo e persi mio padre
ero giovane debole e persi mia madre.
Tutta la mia stirpe possente è perita
tutta la mia stirpe possente.
Alla natura volatile eppure così terribile, perché superficiale, dello spettro del Natale, oppongo la tragedia e la ferita di tali versi. Si può non sedere sui gradini, non attendere l’inizio della scena. Ma allora il Natale rimarrà un fantasma. Mentre il Natale di carne cammina sulle acque, mostra mani e piedi e mangia il pesce arrostito.
Ne Il censimento di Betlemme di Bruegel, domina il ghiaccio, un immenso paesaggio nordico di persone intente in vari modi con la neve e il gelo (e gli annessi e connessi problemi e vantaggi), alcune delle quali si affollano verso un alloggio già pieno. Verso quest’ultimo gruppo, un uomo col cappello, di schiena, indica l’albergo, portando sulle spalle una lunga sega e, appena dietro, sopra un asino, siede una donna: ella si copre dal freddo e sembra coprire misteriosamente qualcos’altro, lasciando fuori dal pesante velo solo il piccolo viso. «Factum est autem, cum essent ibi, impleti sunt dies, ut pareret, et peperit filium suum primogenitum; et pannis eum involvit et reclinavit eum in praesepio, quia non erat eis locus in deversorio» (Lc 2, 6-7). Non c’è posto per questo vero Natale nascosto sotto il pesante velo. Tanto che potrebbe rimanere indifferente a tutti, troppo intenti ad altro. È un Natale freddo sul serio – non c’è neve artificiale. «In propria venit, et sui eum non receperunt» (Gv 1, 11). E l’angelo, prima, e la moltitudine delle milizie celesti, poi, si rivolgono perciò ai pastori, cioè agli impuri, ai peccatori. Ai tragicamente feriti.
Il segno è fragilissimo: un Bambino avvolto in fasce.
Nelle icone dell’Oriente cristiano, questa scena è quasi una reposizione, la culla una tomba nera, il Neonato avvolto di bende. Dio entra nella tragedia del mondo. Fino in fondo. Usque ad mortem.
Non c’è spazio per sorrisi vacui, né per sentimentalismi. Questa è l’unica possibilità di trasformare la tragedia umana in impensabile dramma.
La liturgia della Chiesa intesse sapientemente prima di attesa, poi di luce e dopo ancora di bianco e rosso, rispettivamente, l’Avvento, la Natività del Signore, l’Ottava di Natale. Il rosso scorre nel giorno dopo la Solennità del Natale, in cui si festeggia Santo Stefano, primo martire, e il 28 dicembre in cui si festeggiano i Santi Innocenti, uccisi da Erode.
Il Vangelo proclamato nella festa dei Santi Innocenti è quello di Matteo (Mt 2, 13-18):
[13] Qui cum recessissent, ecce angelus Domini apparet in somnis Ioseph dicens: “ Surge et accipe puerum et matrem eius et fuge in Aegyptum et esto ibi, usque dum dicam tibi; futurum est enim ut Herodes quaerat puerum ad perdendum eum ”.
[14] Qui consurgens accepit puerum et matrem eius nocte et recessit in Aegyptum
[15] et erat ibi usque ad obitum Herodis, ut adimpleretur, quod dictum est a Domino per prophetam dicentem:
“ Ex Aegypto vocavi filium meum ”.
[16] Tunc Herodes videns quoniam illusus esset a Magis, iratus est valde et mittens occidit omnes pueros, qui erant in Bethlehem et in omnibus finibus eius, a bimatu et infra, secundum tempus, quod exquisierat a Magis.
[17] Tunc adimpletum est, quod dictum est per Ieremiam prophetam dicentem:
[18] “ Vox in Rama audita est,
ploratus et ululatus multus:
Rachel plorans filios suos, et noluit consolari, quia non sunt ”.
[13] Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”.
[14] Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, [15] dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Dall’Egitto ho chiamato mio figlio.
[16] Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. [17] Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:
[18] Un grido è stato udito in Rama,
un pianto e un lamento grande:
Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.
Cosa può seguire a questo grido di Geremia se non il silenzio?
Lo spettro del Natale fugge davanti all’abisso vertiginoso del Natale di carne.
Verbum caro. In greco sarebbe: ὁ λόγος σὰρξ. Carne, nel linguaggio di Giovanni, è la realtà fragile dell’uomo, è l’umanità come si rivela nell’esistenza quotidiana. Il Logos che era apparso in tutto il suo splendore e potenza all’inizio dei tempi e del cosmo (Il primo versetto del Vangelo di Giovanni), si immerge paradossalmente nell’abisso della nostra miseria.
Comprendo che il percorso che traccio con piccole briciole che cadono dalla mensa possa sembrare amore del dolore. Ma c’è sadomasochismo e sadomasochismo. Il piacere perverso di curiosità soddisfatta che provocano tante notizie del tele o web giornale, provocano lo stesso effetto del buonismo bulimico: l’indifferenza. Morbosità e moralismo hanno come figlia la superficialità. E l’antidoto è andare, affondare. «In nave sommersa», suona un verso di Elena Bono.
Più su scrivevo: «festa» di Santo Stefano martire, «festa» dei Santi Innocenti. Come si può festeggiare della morte e del dolore innocente? D’accordo scendere nell’abisso del cuore, ma festeggiare? Nella preghiera dopo la Comunione del 26 dicembre si dice: «O Dio, che nella celebrazione di santo Stefano prolunghi la gioia del Natale, […]». Mentre l’Antifona d’ingresso del 28 dice: «I santi Innocenti furono uccisi per Cristo, e in cielo lo seguono, Agnello senza macchia, cantando sempre: “Gloria a te, o Signore”». E addirittura San Quodvultdeus esplode in questa maniera:
“I bambini, senza saperlo, muoiono per Cristo, mentre i genitori piangono i martiri che muoiono. Cristo rende suoi testimoni quelli che non parlano ancora. Colui che era venuto per regnare, regna in questo modo. Il liberatore incomincia già a liberare e il salvatore concede già la sua salvezza.
Ma tu, o Erode, che tutto questo non sai, ti turbi e incrudelisci e mentre macchini ai danni di questo bambino, senza saperlo, già gli rendi omaggio.
O meraviglioso dono della grazia! Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? Non parlano ancora e già confessano Cristo! Non sono ancora capaci di affrontare la lotta, perché non muovono ancora le membra e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria.”
Forse la risposta sta in quel presepe a volte osteggiato e profanato, sta al centro di quella memoria sfondata che San Francesco regalò alla Chiesa, all’Italia e al mondo. Un segno fragilissimo di Vita, che ha la pretesa di essere la Vita, più alta di tutte le Alpi di celebrata altezza, che giace nell’erba sotto i piedi, così che basta solo chinarsi, vederla e raccoglierla da terra. Frase che Pasternak amerebbe – lui che aveva come sorella la Vita. Come il piccolo fiore del calicanto, Vita che nasce nel gelo dell’inverno e lascia un profumo fresco e impensato.
Verbum caro. La sfida ad andare a fondo del Natale di carne.
CANTO DI UNO SFORTUNATO PASTORE
Ira è il mio nome
che tesso con le dita
mia sorella è il pianto
e amaro è il mio cuore
il mio cane è la morte
sono un rozzo pastore
son figlio del dolore
I suoni del mio zufolo
rombano strani d’echi
sempre più nel profondo
l’osso di mucca suona
al rombo di cascate
e tremano le pecore
nel buio e nel terrore
Anche chi nasce fra i giunchi dai cigni
non può evitare l’aquila ed il falco
non può evitare nubi tempestose
non può evitare l’ira abbattuta
del fratello di Caino maledetto
stirpe che maledice
Ma un segno fragilissimo
no, non posso evitare – una lama di luce – questa notte d’amare.
Emanuele Giraldo
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